“Abbiamo bisogno di un Piano Marshall per le mamme, un piano per pagare le mamme per il loro lavoro invisibile e non retribuito”. È questa la proposta che imprenditrici, attiviste e celebrity hanno firmato per proporre al presidente Joe Biden di garantire alle madri un supporto economico che le ricompensi del lavoro che svolgono nel silenzio giorno dopo giorno e che è notevolmente aumentato a causa della pandemia. Un progetto la cui eco si è fatta sentire anche in Italia, grazie all’adesione di grandi nomi del cinema che inevitabilmente ne hanno ampliato la portata comunicativa.
Cos’è il Piano Marshall per le mamme
Marshall Plan for Moms, questo il nome dell’iniziativa, nasce da un’idea di Reshma Saujani, CEO di Girls Who Code, organizzazione che si occupa di supportare e favorire l’accesso delle donne al mondo dell’informatica. Il riferimento, come evidente, è al Piano Marshall del 1948, quello grazie al quale gli Stati Uniti misero in campo una serie di risorse per la ricostruzione dell’Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale. In questo caso, però, l’obiettivo è di rimettere in piedi il tessuto sociale statunitense, fortemente provato dal Covid.
“Due milioni di noi hanno lasciato il lavoro (quattro volte di più rispetto agli uomini) nel solo settembre. Milioni di altre sono state costrette a ridurre le ore o viceversa lavorare 24 ore su 24 per mantenere il posto. Questo non è un incidente isolato, è una crisi nazionale”, si legge nella petizione firmata anche da star del calibro di Charlize Theron, Julianne Moore ed Eva Longoria (solo per citarne alcune).
Secondo i dati diffusi dal National Women’s Law Center, negli Stati Uniti hanno perso il loro impiego, per l’appunto, oltre due milioni di donne tra febbraio e ottobre 2020 e milioni di mamme hanno dovuto sacrificarsi con orari impossibili per riuscire a conciliare tutto dedicandosi alla cura dei figli rimasti a casa da scuola. Una situazione che non suona troppo diversa da quella che hanno dovuto fronteggiare le donne italiane.
Il (calo) del lavoro femminile in Italia
La questione, infatti, sta scuotendo le coscienze, non solo oltreoceano. È evidente a tutti come anche in Italia la pandemia abbia avuto effetti pesanti su tutti e particolarmente sulle donne. Secondo le statistiche elaborate dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro nel focus Ripartire dalla risorsa donna, il secondo trimestre del 2020 vede 470mila occupate in meno rispetto allo stesso periodo del 2019, con un calo del 4,7 per cento. Sul totale dei posti di lavoro persi, 841mila in tutto, quelli femminili sono stati il 55,9 per cento.
Numeri che sono diretta conseguenza della pandemia e dell’esperienza vissuta durante il primo lockdown che ha pesato tantissimo sulle famiglie e soprattutto sulle donne, con un sovraccarico di lavoro senza precedenti: non solo sono state più impegnate degli uomini nell’attività lavorativa (il 74% ha continuato a lavorare rispetto al 66% degli uomini, riporta lo studio), ma hanno dovuto anche assistere i figli a casa impegnati con la didattica a distanza.
Uno stipendio per le mamme, la proposta
“Non ha creato lei questo problema – proseguono le attiviste americane nella loro petizione rivolgendosi direttamente al presidente Joe Biden – Ma la sua amministrazione ha l’opportunità di risolverla”. Le firmatarie della campagna chiedono che entro i primi 100 giorni del suo mandato il neo presidente degli Stati Uniti istituisca una task force per dare vita a una serie di provvedimenti volti a fronteggiare il problema e a promulgare leggi che istituiscano il congedo parentale retribuito, l’accessibilità ai servizi per l’infanzia e l’equità salariale. Non solo: si propone anche di istituire una retribuzione per il lavoro di mamme, commisurata a esigenze e necessità perché – si legge – “La maternità non è un favore e non è un lusso. È un lavoro”.
Un doppio lavoro, verrebbe da dire, se si considerano tutte quelle donne che si dividono tra il loro impiego e gli impegni casalinghi, che per esempio in Italia, stando ai dati della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, ha visto coinvolte quasi 3 milioni di lavoratrici, cioè quelle con un figlio a carico al di sotto dei 15 anni (che rappresentano il 30% delle occupate).
Mamme e disparità salariale
Un livello di stress difficile da sostenere, che va ad aggiungersi a una situazione di certo non idilliaca già prima. Lo scorso ottobre il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, in occasione della presentazione della Relazione annuale, aveva dichiarato che “se si comparano le carriere delle donne che hanno avuto un figlio con un gruppo di lavoratrici simili ma senza figli, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri crescono di 5.700 euro in meno di quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita”.
“I salari settimanali – ha aggiunto – crescono del 6% in meno, le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e l’aumento della percentuale di madri con contratti part-time è quasi triplo rispetto a quello delle donne senza figli. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio”. Parole che fanno riflettere, certo, sull’opportunità di attuare misure volte ad appianare queste differenze e a rendere la vita meno difficile alle madri, ma non solo.
Di norme ce ne sono tante, così come di bonus (che certo possono essere adeguati e perfezionati), quello che spesso manca è una mentalità diversa, una cultura diversa che non guardi alle madri come a una categoria meno produttiva, ma che sappia – al contrario – cogliere la marcia in più di tante donne. Ci sono studi, infatti, che mostrano quanto la maternità, nel lungo periodo, sia un fattore di incremento della produttività: una ricerca intitolata Parenthood and Productivity of Highly Skilled Labor: Evidence from the Groves of Academe, realizzata dai ricercatori Matthias Krapf dell’Università di Zurigo, Heinrich Ursprung dell’Università di Costanza e Christian Zimmermann della Federal Reserve Bank di Saint Louis, le madri sarebbero più “forti” a livello di competenze, efficienza organizzativa e velocità di esecuzione di più attività. Dunque sì a riforme o misure che spingano verso l’equità, rispetto agli uomini e alle colleghe senza figli, ma sì anche a un ripensamento generale della condizione femminile, a partire dalla mentalità dei datori di lavoro e della società stessa.