Se bastasse il Giorno della Memoria per non far accadere più le mostruosità del passato, bisognerebbe istituirne almeno uno al mese, bisognerebbe non smettere mai di parlarne. E se fosse necessario organizzare tavole rotonde per ospitare i sopravvissuti ai campi di concentramento, vedere con i propri occhi quei numeri di serie tatuati sulla pelle, i numeri di quelli che ce l’hanno fatta, quelli che l’hanno scampata e sono tornati con le loro gambe, anche se ormai ridotti pelle ed ossa, bisognerebbe programmarle almeno una volta alla settimana. Eppure non basta, perché a settantasei anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ci sono ancora posti sulla terra in cui viene praticata la pulizia etnica, luoghi in cui le donne vengono annientate e violentate, li chiamano stupri di guerra e servono a convincere le minoranze ad andarsene, nella mente dei mandanti servono a umiliare il maschio nemico, ma in realtà quelle che vengono distrutte nel corpo e nella mente sono quelle donne destinate, in alcuni casi, a diventare madri del figlio del loro stupratore. E tutto questo è successo anche nella guerra dei Balcani, un conflitto a due passi da casa, e così mentre noi firmavamo il trattato di Maastricht, a pochi chilometri di distanza c’era chi veniva ucciso e buttato nelle fosse comuni, solo perché appartenente a una minoranza.
Il Giorno della Memoria non dovrebbe una volta all’anno, perché ricordare gli orrori del passato, ma soprattutto toccarli con mano, dovrebbe essere una delle materie scolastiche, perché leggere dei libri spesso non basta ad immaginare il dolore e la paura vissuti sulla pelle dei deportati, certe immagini vanno visualizzate con i propri occhi. E allora certe storie andrebbero tramandate di padre in figlio, e certi posti andrebbero visitati di persona, o andrebbero visti attraverso gli occhi di chi quel dramma l’ha toccato con mano, o l’ha saputo descrivere così bene attraverso le immagini da sostituire le parole.
Oggi voglio raccontarvi l’inferno di Berta della Riccia, fu arrestata assieme ai suoi familiari per essere condotta ad Auschwitz. Quando scendevano dal treno gli uomini venivano separati dalle donne, alle madri strappavano i figli dalle braccia e li buttavano sui camion, come fossero spazzatura. Alla fine ne rimasero sessantacinque, quelle più robuste, quelle che sicuramente sarebbero state più resistenti. A un certo punto un tedesco vede che una delle ragazze tiene in braccio un grosso involto, le intima di mostrare il contenuto, la fanciulla piangendo e tremando apre lo scialle nero di lana e appare una meravigliosa bambina di sei mesi, Berta si inginocchia, supplica l’uomo di non separarla da sua figlia, e di farle condividere lo stesso destino.
E allora sapete cosa fa quel mostro? Gliela strappa dalle mani, la spoglia in velocità e davanti ai suoi occhi e degli altri presenti la scoscia, uccidendola all’istante, e buttando il suo piccolo corpicino per terra, come fosse un giocattolo vecchio. Berta muore di dolore subito dopo, non reggendo lo strazio dello scempio subìto da sua figlia. La bambina si chiamava Gigliola Finzi, nata e arrestata il 19/2/1944, deportata ad Auschwitz il 16/5/1944, assassinata il 23/5/1944.
Sembra la scena di un film, perché è quasi impossibile immaginare che quest’orrore sia reale, e allora dobbiamo farle conoscere queste storie, anche se le orecchie sanguinano, anche se il cuore scoppia e la mente vacilla, è un dovere dell’essere umano ricordare. E poi se davvero volete capire cosa significava essere ebrei durante il nazismo, essere un’adolescente ebrea in quegli anni, e volete farlo capire ai vostri figli, fate loro un regalo e fatelo anche a voi stessi, andate a visitare la casa di Anna Frank, quando sarà possibile tornare a viaggiare in sicurezza e libertà.
Quelle piccole e ripide scale che hanno scavato così a fondo nel mio cuore, quei muri scarni, quelle pareti ingiallite che conservavano pagine di giornali e foto d’epoca. E le finestre chiuse per non farsi vedere all’esterno. No, non è stato un caso visitare e toccare quei muri due giorni prima che tutto si fermasse. Non è stato un caso ascoltare la voce silente di quegli oggetti, che parlavano a ogni sospiro, raccontando la vita di una famiglia costretta al buio e al silenzio per sopravvivere. Costretta al buio e al silenzio per non morire, non è stato un caso farsi strappare la pelle da quella casa, e percepire i sogni infranti di quella ragazzina che sarebbe diventata una giornalista meravigliosa.
In questi giorni di vita appesa il mio pensiero è andato spesso a lei, a quei due anni di vita nascosti nel retro degli uffici di suo padre, con una libreria scorrevole a separarli dalla vita e dalla morte. Due anni senza contatti con il mondo esterno, con l’unica speranza che la guerra finisse. Ed invece quella che finì fu la sua vita di adolescente, quelli che finirono furono i suoi sogni, nessun primo bacio, nessun primo amore, nessuna voce, per due anni. Ma un diario pieno di lei, e così adesso che viviamo in quarantena, spesso il mio pensiero va a lei. E mi vergogno. Noi che nel nostro lockdown abbiamo tutto, noi che abbiamo pc e smartphone, noi che possiamo comunque uscire e passeggiare davanti casa, noi che possiamo annusare la primavera, e vedere le albe, i tramonti. Noi che possiamo alzare il volume dello stereo e ballare come se non ci fosse un domani, senza paura di essere rastrellati, senza paura di essere scoperti, noi che abbiamo messo in pausa la vita per vincere questa guerra, silenziosa, invisibile e silente. Noi che ci lamentiamo dello spazio piccolo, noi che ogni tanto ci scappa da piangere, lontani dal mondo, facciamoci piccoli.
E non dimentichiamolo. Mai.