Il 28 settembre 2002 la vita di Desirée Piovanelli, quattordicenne di Leno (Brescia), si spegne in una cascina abbandonata alla periferia del paese. Era uscita di casa per andare in ludoteca, ma non vi arrivò mai, sei giorni dopo il suo corpo, martoriato da 39 coltellate e parzialmente bruciato, venne ritrovato nel rudere che gli abitanti chiamavano “la casetta degli orrori”.
Le indagini portarono subito a un gruppo di ragazzi che la stessa Desirée conosceva: tre minorenni, Nicola B., Nicola V. e Mattia F., e un adulto, Giovanni Erra, allora 36enne, operaio e padre di famiglia. Tutti e quattro inizialmente confessarono per poi ritrattare, i tre minori furono condannati a pene comprese tra i 10 e i 18 anni e sono oggi liberi. Erra, indicato come esecutore materiale, passò attraverso un percorso processuale tortuoso: ergastolo in primo grado, riduzione a 20 anni in appello, annullamento in Cassazione e nuovo processo con condanna definitiva a 30 anni.
A distanza di 23 anni, anche Erra si appresta a tornare libero grazie a sette anni di sconto di pena per buona condotta. “Siamo agli sgoccioli” ha confermato il suo avvocato. Così, mentre i condannati tornano progressivamente alla vita di tutti i giorni, la famiglia Piovanelli resta inchiodata a quel 28 settembre.
Il padre di Desirée, Maurizio, non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia. Per lui la versione accertata dai tribunali, tentativo di stupro degenerato in omicidio, è solo una parte della storia. Sospetta un sequestro orchestrato da una rete di pedofili con un mandante mai individuato. “A cominciare dalla telefonata di uno dei minorenni a un adulto dopo l’omicidio. Se fosse stato verificato a chi era indirizzata, poteva venire fuori il mandante” ripete.
Maurizio Piovanelli denuncia anche altre ombre: il DNA trovato sul giubbino della figlia, mai analizzato, e indagini che considera incomplete. Nel 2021 la Procura ha archiviato l’inchiesta bis, ma l’uomo non si arrende: “Io e i miei avvocati stiamo preparando la prossima mossa. Spero sia la volta buona”.
Desirée, che oggi avrebbe 37 anni, rimane così una ferita aperta per la comunità di Leno e un caso in cui giustizia e verità, per la famiglia, non coincidono ancora.
Ventitré anni sono una vita intera, quella che Desirée non ha potuto vivere. Quando entro negli archivi digitali e il suo volto mi appare tra le immagini, resto catturata da quegli occhi grandi, da quello sguardo sospeso tra l’infanzia e l’adolescenza. Una donna bambina che non ha avuto il tempo di diventare grande.
Desirée non ha conosciuto il primo amore, non ha festeggiato i suoi compleanni oltre i quattordici anni, non ha costruito i sogni che portava nel cuore. Nella cascina di Leno le sono stati rubati tutti insieme, in un’ora e mezza di violenza e crudeltà che nessuna sentenza potrà mai raccontare fino in fondo.
Oggi i suoi assassini sono liberi o in procinto di tornare tali. Hanno chiesto pietà nei tribunali, quella stessa pietà che a Desirée fu negata, hanno avuto percorsi di rieducazione, permessi, benefici, riduzioni di pena. Lei no. Lei resta ferma a quell’autunno del 2002, e con lei i suoi genitori, condannati a un ergastolo invisibile che non prevede sconti né liberazioni anticipate.
Il padre Maurizio, da 23 anni, non smette di cercare la verità. Crede che dietro quell’omicidio ci sia molto di più: un mandante mai scoperto, una rete di silenzi e omissioni, indagini che non hanno scavato abbastanza. Forse ha ragione, forse no, ma la sua battaglia è il simbolo di un dolore che non accetta archiviazioni. Perché un padre non smette di cercare, mai.
E allora la domanda resta sospesa: quanto vale la vita di una ragazza di 14 anni? Vale trenta anni di carcere ridotti a venti per buona condotta? Vale una giustizia che non consola, che lascia aperti i dubbi e le ferite?
Desirée aveva quattordici anni, ne avrebbe oggi trentasette. Non li avrà mai. E a pagare le conseguenze di quell’assenza, di quell’orrore, di quella tragedia, non saranno mai i carnefici, ma solo i suoi familiari, perché fine pena mai, sì, ma solo per chi l’ha amata.