Nella notte tra il 18 e il 19 ottobre del 2018 il corpo senza vita di Desirée Mariottini, abbandonato su un lettino con sopra una coperta, viene ritrovato all’interno dello stabile abbandonato di via dei Lucani, a San Lorenzo, Roma. Per quella morte vengono fermati due senegalesi, irregolari in Italia: Mamadou Gara e Brian Minthe. I due sono ritenuti responsabili, in concorso con altre due persone, ricercate, di violenza sessuale di gruppo, cessione di stupefacenti e omicidio volontario. Gli altri due arresti scattano nelle ore successive: in manette finiscono Alinno Chima, 47 anni, e Yusef Salia.
La ragazzina 16enne sarebbe rimasta in stato di incoscienza per diverse ore prima di morire: le sarebbe stata somministrata droga il 18 pomeriggio e mentre era in stato di incoscienza è stata vittima di abusi. Il 21 giugno del 2019 la Procura di Roma chiude le indagini, la sentenza arriva a quasi tre anni di distanza dai fatti. Due ergastoli e altre due condanne a 27 anni e 24 anni e mezzo, condannati all’ergastolo Mamadou Gara e Yusef Salia. Condannato a 24 anni e mezzo Brian Minthe, che in un primo momento torna libero per scadenza dei termini di custodia cautelare, ma non lascia il carcere perché il giorno successivo viene raggiunto da una nuova misura chiesta e ottenuta dalla Procura di Roma per l’accusa di omicidio. A 27 anni Alinno Chima. Le accuse nei loro confronti vanno, a seconda delle posizioni, dall’omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di stupefacenti a minori.
Questa è la fredda ricostruzione di quello che è accaduto quella notte e gli anni successivi che hanno portato all’arresto e alla condanna dei colpevoli, ma il dolore e le mille domande senza risposta che da quel giorno albergano nella mente di Barbara, mamma di Desirée, e nelle persone che le volevano bene non avranno mai pace, perché nessuna sentenza riporterà indietro quella ragazzina dal sorriso malinconico, quella poco più che bambina caduta troppo presto in problematiche più grandi di lei, senza gli strumenti adatti per uscirne, nonostante fosse stato richiesto l’aiuto degli assistenti sociali, e che a farlo fosse stata proprio la madre.
Perché è facile giudicare dall’esterno, condannare un genitore e dire: “Ah signora mia io non l’avrei fatto, a me non sarebbe mai successo“, fino a quando quel qualcosa di brutto succede, e all’improvviso ci si ritrova dall’altra parte della barricata, perché da giudicanti a giudicati è un attimo. E così il giorno dopo la morte della Mariottini, sui media era un susseguirsi di titoli clickbates, lasciando intendere che la ragazza fosse “solo” una drogata, insinuando, suggerendo che la madre a sua volta fosse una tossicodipendente e che l’avesse abbandonata al proprio destino, mettendosi sullo stesso piano di chi l’aveva violata da viva. Come se la dipendenza giustificasse il crimine subito.
È così difficile essere un buon genitore, a volte uno ci prova con tutto se stesso, poi i casi della vita, il destino di merda, chiamatelo come volete, ti fa arrivare quella telefonata maledetta durante la notte, quello squillo che ti porterai dietro per tutto il resto della tua esistenza, perché quando i carabinieri ti chiedono di venire in questura e tua figlia non è nel suo letto, tu sai già cosa dovranno dirti, ma lo scacci con tutta te stessa, con tutta la forza che hai dentro, e arrivi a sperare che l’abbiano arrestata, che magari la costringeranno a disintossicarsi, perché tutto è meglio della morte.
Come si fa anche solo a pensare che Desirée fosse “solo” una drogata? Come si fa a dire “se l’è cercata”? Desirée era solo una ragazzina di 16 anni, uscita di casa in un pomeriggio, come tanti adolescenti fanno, e mai più rientrata. Come si fa a non immaginare l’orrore da lei vissuto nelle ultime ore della sua vita? È vero che Desirée entrò con le sue gambe in quello che sarebbe diventato il luogo della sua morte, ma le è stato impedito di uscirne viva, è stata drogata con un mix di cocaina, eroina e psicofarmaci, si sarebbe potuta salvare se solo avessero chiamato i soccorsi, ma Salia lo impedì a tutti: «Meglio che muore lei, che noi in galera». È stata adagiata su un materasso sudicio per poterne abusare indisturbati, uomini di 47 anni contro una poco più che bambina di 16. Desirée ha perso la sua verginità in quel maledetto stabile abbandonato, cercando di difendersi fino a quando le sue forze gliel’hanno permesso, ha perso i suoi sogni, desiderava vedere l’aurora boreale, e sicuramente sognava di innamorarsi, oppure lo era già, ma questo non lo sapremo mai, perché quel maledetto infame giaciglio improvvisato è diventato il suo letto di morte, dopo ore di agonia.
E allora diciamo la verità e chiamiamo le cose con il loro nome tutti quelli presenti in quello stabile sono i responsabili della morte di Desirée, chi l’ha violentata nell’animo e nel corpo, chi ha visto e si è girato dall’altra parte, chiunque avesse potuto intervenire e non l’ha fatto, perché la paura non può essere la scusante, per nessuno dei presenti, bastava una telefonata, e tutti hanno un cellulare, sarebbe bastata una chiamata al 118, quella che nessuno ha fatto, preferendo la morte di una ragazzina alla volontà di impedirlo.
La sentenza ha condannato all’ergastolo due degli imputati, ma nessuno potrà mai riportare in vita una bambina violata e restituirla a chi l’amava, e quelli che hanno avuto pene minori, o si sono salvati dalla prigione, collaborando con la polizia alla ricostruzione dei fatti avvenuti quella notte, dovranno fare i conti con la loro coscienza, quella che tre anni fa non è stata sufficiente per salvare la vita a quella che poteva essere la loro figlia, la loro sorella, una loro amica. Perché Desirée non se l’è cercata, lei non voleva morire, e mai avrebbe pensato che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno su questa Terra, e nessuno mai potrà permettersi di dire il contrario, perché quando muore una ragazzina di sedici anni non ci possono essere giudizi, esiste solo una forma di amore postumo. Il rispetto.