Cara Franca oggi è un traguardo importante, di quelli che vanno festeggiati, anche se i tuoi amici, i tuoi amori, se ne sono andati da tempo. La sedia a rotelle dove ormai ti trovi da qualche anno non riuscirà a fermare la tua mente, i tuoi pensieri, i tuoi ricordi. Cento anni di una donna come te non passano inosservati, e non devono farlo, tu che sei stata intelligente quando andava di moda la bellezza, ironica quando le finte tonte facevano strada e colta quando la cultura sembrava un ostacolo alla carriera.
Per spiegare alle generazioni odierne chi era la mitica signorina Snob che teneva incollati milioni di Italiani il sabato sera, con le sue telefonate inventate, con le sue risposte pungenti, le sue pettinature a forma di cofano, gli occhi alzati al cielo, non bastano le mie poche righe. Ma dal momento che oggi gli auguri te li faranno tutti, anche quelli che non hanno mai visto un tuo film, o un tuo sketch, ho deciso di raccontare uno spaccato della tua vita a modo mio. Come se fosse un racconto. Perdona la prima persona, ma ho cercato di indossare i tuoi panni per mostrare al mondo la tua bellezza. Spero di esserci riuscita.
(Ndr: I fatti raccontati sono realmente accaduti, estrapolati da un’intervista rilasciata qualche tempo fa al Corriere, mi sono presa qualche licenza poetica, come il nome della sposina ebrea, il resto è stato raccontato dalla stessa Franca. Io l’ho interpretato come so fare. Cercando di viverlo in prima persona.)
” Io non lo so perché nonno Giulio continui a portarmi delle torte da mangiare, sì è vero sono una bambina, ma che ci posso fare se non mi piacciono quei tipi di dolci? E mai che me lo chieda, tutti lo danno per scontato. Come il fatto che mi piacciano le bambole. Glielo dici tu a mia nonna Francesca che deve smettere di regalarmele? Ci ho riempito un cassettone, ma ogni volta, ad ogni ricorrenza è sempre la stessa storia. “Sei una bambina” e quindi mi toccano le bambole.
Che poi alla fine glielo vorrei anche dire che mi annoiano, io non sono come le altre, non mi diverto a cambiar loro abito, o acconciatura, io vorrei proprio che cambiassero vita. Perché devono restare a casa a cucinare se desiderano fare altro? Chi lo ha scritto che per essere felici si debba per forza avere un marito? Io sono piccola ancora, ma la gioia vera la provo quando studio un testo o traduco una versione, e soprattutto quando mi danno un palco. Oh il teatro, come glielo spiego a papà Luigi la sensazione che provo quando sono là sopra e recito un pezzo? Magari un monologo scritto da me. Lui che vuole che passi la vita a dipingere, mentre io mi sento viva quando declamo. Intanto mi ha detto di prendere la licenza liceale che dopo si vedrà, c’è tempo. Tanto.
E invece una mattina quel tempo è finito, me lo ricordo bene, stavo per andare a scuola, mio padre era seduto sulla sua poltrona preferita in salotto, aveva il giornale in mano. È stata la prima volta che l’ho visto piangere. Sono passate le leggi razziali, lui è ebreo. Non posso più andare a scuola, non posso più andare a teatro, ho una morsa nello stomaco, mi mancano i miei compagni, mi manca camminare da sola per arrivare al Parini, ma non posso più frequentarlo. Vorrà dire che mi diplomerò da privatista, in qualche modo.
Il tempo non scorre mai, per farmelo passare mi sono letta tutta la Recherche di Proust, ma tu lo sai quanti volumi sono? Sette. Probabilmente non ci fosse stata la guerra non sarei mai riuscita a finirla. E sono anche riuscita a diplomarmi al Manzoni, non si sono accorti di nulla. E nonostante tutto mi ci scappa da ridere per come li ho fregati, non avessi rischiato il famoso pezzo di carta, glielo avrei pure urlato quanto erano inetti e cretini. Dei cretinetti.
E poi è arrivato quel giorno, se ci penso mi vengono i brividi, il giorno in cui papà Luigi e mio fratello Giulio sono scappati in Svizzera, con i gioielli di famiglia cuciti nelle giacche. Lo so che è necessario, che qua non è più sicuro per loro, io e mamma siamo cattoliche, adesso ho anche un documento nuovo con il suo cognome. Adesso mi chiamo Franca Pernetta, invece che Norsa. Dovremmo essere al sicuro, ma qua non è più sicuro nulla. Sono arrivati i nazisti.
Ci hanno detto di nasconderci perché siamo in pericolo, papà non se lo immaginava quando se n’è andato, vorrei tanto fosse qui. Vorrei chiudere gli occhi e farmi abbracciare da lui, che quando mi stringe forte mi sento protetta, tanto. E invece qua fa freddo, e non abbiamo più la nostra abitazione, abbiamo trovato riparo in una casa bombardata in via Mozart, insieme ad altri come noi. Braccati, sfollati, impauriti. Ognuno di noi solo con i suoi pensieri e le sue paure, eppure ho fatto amicizia con una ragazza che ha la mia età, è così dolce, riesce ad essere bella anche sotto le macerie, e poi quella luce, quella luce che ha negli occhi, quella dell’amore. Si è sposata da poco, è ebrea, e quando guarda suo marito le si illumina il viso. Un ragazzino anche lui, segnato dal cognome che porta, come un marchio maledetto.
Maledetto da questa guerra infame. E si fa amicizia presto sotto le bombe, o almeno sembra tutto più facile, anche i rapporti umani, perché non ci sono filtri, non c’è bisogno di fare quelle domande stupide, non si vive di superfluo. Quando chiedi come stai, ti interessa davvero. Non si passano le giornate a rincorrere le chimere, si cerca di sopravvivere. La sposina si chiama Malka, che significa regina, ma lo ha cambiato in Maria, perché Malka è troppo ebreo. Adesso che ci siamo trasferiti da amici ho dovuto lasciare i miei gatti lì, in via Mozart. Oggi ho deciso che vado a trovarli così saluto anche Malka/Maria.
Non lo so perché mi sono fermata, ho visto il cancello aperto, di solito è sempre chiuso, è stato un attimo, chiamala intuizione, mi sono nascosta, che mamma non voleva nemmeno che uscissi di casa. Ma io sono uscita lo stesso, non cambierò mai. Se lei dice di fare una cosa, io faccio il contrario. Mi manca papà, mi manca mio fratello, che lo so che se ne sono andati per salvarsi, ma adesso io come faccio che dentro mi si è rotto qualcosa e mi viene da piangere e da urlare? Ci sono i soldati, maledetti, maledetti nazisti li stanno portando via tutti, mi nascondo meglio. Ho paura, ho davvero tanta paura che se solo fiaterò porteranno via anche me. È così che l’ho vista, la mia Malka, l’hanno lasciata per ultima, la stanno trascinando, lei urla, piange, l’hanno separata da suo marito, gli uomini li hanno già portati via, è rimasta con le altre donne. La disperazione non è riuscita a modificare la sua bellezza, ma il dolore le ha strappato di dosso la dolcezza e anche la sua età. Vorrei urlare anche io, vorrei gridare di lasciarla andare, ma non posso. Se lo faccio caricheranno anche me.
Odio questa guerra, odio i nazisti, voglio solo che finisca tutto, voglio tornare alla mia vita di prima. Voglio tornare a vivere. Non so quanto tempo sia passato, sono rimasta muta dietro il muro di via Mozart, le lacrime mi hanno fatto compagnia insieme alla consapevolezza che niente sarà più come prima. Quando mi hanno detto che Mussolini era stato fucilato sono dovuta andare a vedere se era morto sul serio. Sì ci sono andata in quella piazza, nel Piazzale Loreto, a guardare i corpi appesi, dovevo essere sicura fossero morti per davvero.
Mia mamma ha paura a sapermi in giro da sola, sparano ancora per le strade, ma io ho bisogno di vederlo con i miei occhi che il Duce è morto davvero. Quando soffri quello che abbiamo patito noi, non esiste la pietà. La morte, solo la morte rassicura. Bisogna provarli certi dolori per capire il prezzo pagato. Ci siamo salvate per fortuna. Solo per fortuna. Ci potevo essere io al posto di Malka, la mia Malka. Deportata ad Auschwitz. Non è mai più tornata. Le hanno rasato i capelli, le hanno portato via l’amore, le hanno portato via il sorriso, le hanno portato via la vita. Sono dolori che non finiscono. Non finiscono mai. Ed io dovevo essere sicura che quelli che avevano permesso tutto quell’orrore fossero morti.
Sono tornata a casa sollevata e ho abbracciato mia mamma. Forte. Fortissimo. L’ho rassicurata, le ho detto che era davvero finito tutto e che ce l’avevamo fatta. Eravamo sopravvissute. Oggi papà e mio fratello tornano a casa, cioè non lo so di preciso il giorno, ci hanno scritto una lettera, noi abbiamo fatto i calcoli e li aspettiamo a momenti. Poi all’improvviso suona il citofono, io e mamma corriamo per la scale, ci manca poco che cadiamo, ci appoggiamo l’un l’altra per non cadere, proprio come abbiamo fatto durante la guerra. Poi si apre la porta loro che salgono e noi che ci buttiamo ad abbracciarli. Come sono belli. Com’è buono il profumo di mio padre. Non me lo sono dimenticata. “Papà siediti che devo raccontarti la mia vita. Ho deciso cosa farò da grande, l’attrice“. “ma no Franca, perché non dipingi? Io non posso immaginare il mio cognome sulle locandine”. “Tranquillo papà, mi chiamerò Valeri, come il poeta francese, Franca Valeri. E sarà un successo.”
E così è stato piccola grande Franca, tanti auguri a te che sei diventata un simbolo del femminismo, pur non essendo femminista, che hai detto “È importante trasmettere alle giovani donne che non si dimentichino mai di essere intelligenti. Il femminismo non è una militanza, il femminismo è un sentimento”. Auguri a te che non sai il motivo per cui sei diventata un’icona gay, ma ne sei orgogliosa e guardi i video sul web commentando le parrucche e il trucco delle dragqueen. Auguri a te attrice, regista, sceneggiatrice, commediografa e scrittrice che così tanto hai fatto per il genere femminile in un mondo declinato prettamente al maschile.
Auguri a te orgogliosa antifascista. Per i tuoi cento anni ti arrivi il nostro abbraccio più grande.
Te lo sei ampiamente meritato.