Sui social sappiamo come funziona. A seconda del periodo storico, impazzano bande di virologi laureati alla scuola della vita, allenatori esperti di difesa all’italiana durante gli europei che non hanno mai visto un campo da calcio, se non quell’oratorio, e in tempi di guerra, come purtroppo sta accadendo da più di un mese in Ucraina, sedicenti mediatori di pace che dalla poltrona di casa parteggiano per l’uno o l’altro dei fronti militari, come se fosse un gioco. Il problema è che questa volta non si tratta di Risiko, non ci sono finti carri armati pronti a sfidarsi a colpi di dadi, qua c’è un popolo che sta subendo un’aggressione, un’invasione dei propri territori, persone che dalla sera alla mattina si sono trovate private della loro casa, dei loro beni, ma soprattutto della loro vita.
Provate a mettervi nei loro panni, all’improvviso dopo aver cenato e aver messo a letto i vostri figli, scoprite di essere in guerra, che stanno bombardando delle città vicino alla vostra, che la normalità, quella che fino a qualche minuto davate per scontata, non esista più. Le scuole vengono chiuse, i paesi riempiti di sacchi per delimitare confini e alzare barricate, sugli scaffali non si riesca più a trovare cibo per sopravvivere o farmaci salvavita, e una semplice passeggiata possa trasformarsi in una via di non ritorno. Di solito è a questo punto che i sedicenti “so tutto io” si lanciano in disamine politico/militari, proponendo soluzioni così facilmente realizzabili dal loro punto di vista, che immediatamente viene da chiedersi cosa ci facciano sul loro comodo divano e non si siano già arruolati, per l’una o l’altra parte, vista la loro bravura.
Dimenticandosi il postulato fondamentale, durante una guerra non vince nessuno, tanto meno i civili, e come disse il compianto Gino Strada: «La guerra piace ai politici che non la conoscono. La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dalle guerre. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno per capire che non importa se c’è un’altra guerra. Che sia contro il terrorismo, per la democrazia o i diritti umani. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Che non sanno neanche perché gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri».
Ma, in mezzo ai sedicenti esperti, i social riescono a raccontare anche il bello dell’umanità, e se questo buono viene da persone che conosci virtualmente da una vita (più di dodici anni) non puoi che essere fiera di come tu riesca ancora a percepire il buono anche attraverso uno schermo. Già perché tra il dire e il fare, come dice Elio, c’è di mezzo “e il”, eppure loro, Yasmine Vellutini e Chiara Tommasi, rispettivamente 47 e 40 anni, non se lo sono fatte ripetere due volte, una volta scoppiata la guerra hanno cercato un modo per aiutare concretamente le popolazioni colpite, e non dal divano, si sono unite ad un’associazione, Time4life, per poi fondarne una loro, Il ponte dei giocattoli, che prende il nome dal ponte di legno che si trova a Sighetu, che accompagna i bambini ucraini dalla guerra alla pace, pieno appunto di peluche colorati. Ho seguito la loro missione attraverso i canali social e, una volta tornate a casa, ho deciso di farmela raccontare.
Come vi siete conosciute?
Chiara è un’infermiera del 118 dell’ospedale di Feltre, ci siamo incrociate più volte in ambito ospedaliero, vista la natura del lavoro di Massimo, mio marito, che è un medico, ma mai frequentate prima. Io gestisco un B&B e il resto del tempo l’ho sempre impiegato nel volontariato del paese. Nei primi giorni di inizio guerra in Ucraina leggo sui social un suo appello nel quale si offriva di dare il proprio aiuto, io avevo già risposto a un appello di Time4life per partecipare a una loro missione umanitaria per portare cibo e beni di prima necessità sul confine Rumeno-Ucraino, quindi ho pensato di taggarla nel post. Io e Massimo avevamo prenotato la partenza del 17 marzo, Chiara quella del 10, si è liberato il posto per 3 persone nella missione del 10 (le missioni erano così strutturate: 40 volontari per un convoglio di 20 mezzi) pilota e copilota su ogni mezzo per il cambio alla guida, dovendo percorrere 1350km, e alla Tommasi mancava il copilota, così sono salita sul suo mezzo e siamo partite la prima volta il 10 di marzo 2022 con un carico di cibo, vestiti, farmaci e donazioni per un totale di 14.000 euro. Una volta giunte a Sighetu la sera (paese confine con l’Ucraina) ci siamo recate in più strutture (orfanotrofi) adibite all’accoglienza di mamme e bambini profughi di guerra. In una di queste Chiara ha lasciato un peluche gigante, con all’interno della tasca un po’ di soldini con la speranza che lo trovasse il primo bimbo arrivato nella camerata.
E il giorno dopo avete conosciuto questo bambino?
Sì, il giorno dopo casualmente abbiamo conosciuto una mamma con il suo bambino, Nastya con il suo piccolo Mirosha, che in braccio aveva il nostro peluche, erano arrivati nella notte, fuggiti dalla propria casa perché raggiunta da un missile, ci è quasi scoppiato il cuore. Per tutto il viaggio di rientro ci siamo fermate ad ogni autogrill cercando di aiutare il più possibile, anche economicamente, le mamme con bambini incontrate, abbiamo ascoltato i loro racconti, assistendo impotenti alle loro lacrime di disperazione. È stato il viaggio più straziante di sempre.
E una volta tornate a casa cosa è successo?
Siamo tornate con l’idea di ripartire subito, quelle lacrime, quegli abbracci e quella disperazione, ci è entrata nell’anima, così ci siamo offerte di ripartire con la missione del 27 marzo. Doveva andare tutto come da programma precedente, ma Chiara ha avuto modo di conoscere Roman, un collega infermiere, che lavora a Verona di nazionalità Ucraina, delegato dalla sua ambasciata in Italia, di reperire e gestire in ambito sanitario tutto il necessario per gli ospedali ucraini. Da lì, sapendo del nostro viaggio, ci ha chiesto se ce la sentivamo di portare oltre il confine di Sighetu un carico di farmaci salva vita (insulina, adrenalina ecc…) e noi abbiamo accettato.
Cosa spinge due donne italiane ad addentrarsi per oltre 200 km in un territorio dove c’è la guerra?
La volontà di poter contribuire a salvare delle vite, sembra una frase fatta, ma vi assicuro che non lo è. Dopo aver visto e toccato con mano la disperazione di quelle donne con i loro figli, mentre ci raccontavano dei loro cari rimasti a combattere, senza sapere nemmeno se fossero ancora vivi, non si può rimanere indifferenti, anzi la verità è che non si riesce a rimanere indifferenti. Perché tu sei nel tuo letto, sotto le coperte al caldo, ma la testa torna là, e le immagini di quei profughi senza niente, con una piccola valigia dove magari hanno infilato trenta anni della loro vita, qualche vestito, ti rimane scolpita nell’anima. E diventa un pensiero costante, cerchi solo di capire e trovare il modo per aiutarli ancora. Per questo siamo partite, cercando di non avere paura, ci siamo preparate psicologicamente a portare a termine la missione, pensando a quante vite avremmo potuto salvare con il nostro carico di farmaci, e solo al nostro rientro, abbiamo dato libero sfogo alle nostre emozioni, gioia e soddisfazione per il risultato e paura per quello che avevamo visto e superato.
Quali immagini vi hanno colpito maggiormente in Ucraina?
Abbiamo transitato paesi popolati da soli uomini, quasi tutti erano militarizzati, militari e civili armati, i tanti ragazzini a pattugliare le strade, questo ci ha fatto impressione. Sembravano bambini da quanto erano giovani. Non è facile spiegare a parole quello che una città ferita dalla guerra riesce a trasmettere, certi silenzi interrotti solo da sirene o il rumore dei proiettili esplosi, tragitti surreali senza incontrare anima viva o la paura che possa uscire qualcuno all’improvviso, e non saperne le intenzioni. Ma la voglia di aiutare è stata più forte di tutto, sapere di poter fare la differenza per qualcuno ci ha spinto ad andare avanti, e alla fine vi ricordate la prima mamma con il bambino, che abbiamo incontrato, Nastya e Mirosha, quelli che hanno trovato il peluche di Chiara? Dopo essere arrivati in Bulgaria con false promesse di lavoro, ci hanno chiesto aiuto, hanno affrontato 12 ore di viaggio per tornare a Sighetu, nello stesso luogo dove ci siamo conosciute. Adesso vivono con lei, in una casetta vista lago, a pochi km da me, sulle colline bellunesi, siamo diventate una grande famiglia allargata. E abbiamo fondato una nostra associazione che porta il nome proprio di quel luogo, il Ponte dei giocattoli, perché questa è una promessa che io e Chiara ci siamo fatte, tornare lì e continuare ad aiutare. Fino a quando sarà possibile. Fino a quando ce la faremo.