Ogni giorno parliamo di violenza, per combatterla, per insegnare ai nostri figli e alle future generazioni che questa forza, impetuosa e incontrollata, non dovrebbe appartenerci, mai. Tuttavia, c’è qualcos’altro che dobbiamo spiegare agli uomini e alle donne del domani, un’altra forma di violenza, silenziosa e apparentemente non nociva che però può trasformarsi in una piaga terribile: l’indifferenza.
Non curarsi del prossimo, non vedere i problemi di chi ci circonda e ignorare il grido di qualcuno che ha bisogno d’aiuto: non è forse questa stessa una violenza? Alcune persone definiscono l’indifferenza come uno stato affettivo neutro perché chi è indifferente, semplicemente non sente e non soffre.
Ma se questo stato neutro da una parte sembra quasi renderci invincibili, immuni dal dolore e dalle delusioni, viene quasi naturale chiedersi: che fine fa la nostra umanità? Del resto è di sentimenti ed emozioni che siamo fatti, così come di empatia, supporto, gentilezza e sorellanza sono fatte le nostre relazioni. Senza tutto questo cosa saremmo noi?
“L’indifferenza è la malattia più brutta che possiamo avere”
“L’indifferenza è la malattia più brutta che possiamo avere: diventare indifferenti, asettici ai problemi degli altri, come i due ecclesiastici passati davanti al povero uomo ferito dai ladri. Guardare e non voler vedere”. Le parole di Papa Francesco, pronunciate tempo fa durante la conferenza episcopale ”Corresponsabilità e partecipazione”, sono emblematiche per l’argomento trattato in qualsiasi contesto.
L’indifferenza può riguardare il nostro posto nella società, quello in una comunità o in una relazione, eppure le conseguenze sono sempre le stesse. Nefaste potremmo dire. Perché nessuno si salva da solo, non può farlo e non dovrebbe farlo. Eppure nella direzione sempre più individualista imboccata dalla nostra società, nessuno più chiede aiuto. Noi non chiediamo aiuto.
Non lo facciamo perché ci siamo convinti che siamo invincibili, che dobbiamo mostrarci forti e mai vulnerabili, e perché forse abbiamo paura di non trovare mani tese, ma solo indifferenza. Del resto quella mancanza di interesse e di partecipazione sembra essere diventata una peculiarità dei tempi moderni, di tutti coloro che camminano e corrono senza voltarsi indietro mai.
Eppure viene da chiedersi cosa siamo noi senza gli altri, senza quelli che che ignoriamo. Senza l’interesse verso il prossimo e la partecipazione, senza l’empatia, la gentilezza, il rispetto e la condivisione. Cosa resta, dunque, senza tutto questo?
Dove inizia l’indifferenza finisce l’umanità
L’antropologa Margaret Mead ha individuato nell’opposto dell’indifferenza e dell’individualismo la nostra umanità. Seconda la studiosa, infatti, il primo segno di civiltà non risiede nella capacità di dialogare, mangiare o sopravvivere, ma nella cura degli altri. Nel mondo animale, infatti, se una creatura resta ferita non può curarsi, né procurarsi cibo, ma soprattutto viene salvata da qualcun altro. Per gli esseri umani, invece, è diverso perché noi abbiamo la capacità e il potere di aiutare qualcuno in difficoltà. Ed è proprio questo potere che sancisce l’inizio della civiltà.
L’indifferenza, questo è chiaro, non può e non deve appartenerci. Camminare per strada e non guardare, vedere qualcosa di orribile e girarsi dall’altra parte, sentire un grido d’aiuto, e non ascoltarlo, non tendere la mano: non è forse una delle forme di violenza più pericolose del mondo?
Insegniamo alle nuove generazioni a diventare immuni da questa malattia, e a non farsi mai contagiare. Insegniamo loro a non essere mai indifferenti nei confronti delle persone, del mondo che c’è la fuori, di non ignorare una lite tra i vicini di casa, o una violenza per strada, né la richiesta di supporto di un amico o di un conoscente.