Perseguitate, trattate male, umiliate, violate, aggredite: questa è la realtà con cui molte donne – purtroppo – sono costrette a fare i conti ancora oggi. La parità di genere, le tutele di legge, spesso sono solo principi sanciti nero su bianco: conquiste sì, ma che richiedono sforzi, lotte e denunce per essere messi in pratica.
Forse per questo motivo, mentre i centri anti violenza chiedono più supporto (con introduzione di pene più severe per gli aggressori, maggiori tutele per le vittime e più fondi per le associazioni), ha fatto discutere molto la decisione presa dalle Sezioni Unite della Cassazione con la quale è stato dichiarato che il reato di stalking non sarà più considerato un’aggravante in caso di femminicidio.
Dopo essere stato un’aggravante per più di 10 anni (è stato introdotto nel codice penale nel 2009), lo stalking viene integrato in pacchetto “tutto compreso”. Non è forse questa la definizione giuridica più esatta per definire il caso e la fattispecie, ma è così che molti lo hanno interpretato. Ma proviamo a fare chiarezza.
Chi si macchia di femminicidio, è stato deciso, commette un “reato complesso”, derivante dall’unificazione normativa di due reati in una forma aggravata di uno solo di essi, il che vuol dire che al suo interno “assorbe” tutte le aggravanti, compresi gli atti persecutori e le eventuali violenze precedenti (ovvero lo stalking).
Come spiegato sul sito specializzato Sistemapenale.it, “si osserva infatti che l’omicidio commesso dallo stalker ai danni della propria vittima (…) piuttosto che essere commesso ‘in occasione’ o ‘contestualmente’ agli atti persecutori è, di solito, preceduto e ‘preparato’ da quest’ultimi, secondo una logica di progressione: ed in questo risiede la particolare connessione tra i fatti di reato in questione, i quali, anche se separati sul piano cronologico, costituiscono espressione della medesima volontà persecutoria, che, secondo la valutazione politico-criminale del legislatore basata su fondamenti criminologici, spinge l’autore del reato prima a commettere le reiterate condotte di minaccia o molestia e poi, da ultimo, alla condotta omicida”.
Il venir meno dell’aggravante, tuttavia, non è traducibile – a livello giuridico e giurisprudenziale – in uno sconto di pena.
In questo caso specifico dove le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a dire la loro, in realtà la persona imputata (che tra l’altro è un’altra donna, accusata di omicidio e di atti intimidatori e persecutori nei confronti di una collega) viene condannata all’ergastolo, mentre in caso di concorso di reato avrebbe avuto 30 anni.
Quindi sì, hanno “assorbito” il reato di stalking, ma la pena per il reato “complesso” è in realtà più alta.
È una questione molto più complicata di quanto possa sembrare, sia perché la materia giuridica spesso non è di facile comprensione, sia perché chi ha il compito di informare e spiegare spesso non va a fondo alla questione. Ciò non toglie che questa decisione possa ugualmente far discutere, in quanto figlia di un sistema che è ben lontano dall’essere ineccepibile.
Non a caso, secondo l’ultimo Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria, analisi presentata il 17 giugno 2021 alla Commissione di inchiesta del Senato, “i responsabili della organizzazione degli uffici giudiziari non hanno ancora raggiunto una adeguata consapevolezza della particolare complessità che la trattazione della materia della violenza di genere e domestica richiede”.
“Questo dato – è stato spiegato – appare rilevante, in quanto il mancato riconoscimento della complessità della materia potrebbe contribuire all’innescarsi di circoli viziosi: non adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, non tempestività dell’intervento, aggravio e sbilanciamento nel carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di una disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla”.
A raggiungere gli standard minimi di efficienza, sono poche procure, il che ha delle conseguenze su indagini, processi e persino sulle pene dei colpevoli. Se a questo aggiungiamo la confusione legata ad interpretazione e prassi, allora di quanto sia ancora tanta la strada da fare diventa più chiaro.
Non è forse arrivata anche l’ora di ripensare all’intero sistema a partire dall’informazione?