Parlare di Marcinelle oggi, esattamente come ieri, ci costringe a fare i conti con una delle tragedie più dolorose del mondo intero che ancora oggi è vivida nella memoria di chi quell’inferno lo ha visto con i propri occhi e di chi, proprio lì, ha perso un pezzo del proprio cuore.
Perché la verità è che quel giorno di agosto del 1956 tutti hanno perso qualcosa. Chi l’affetto e l’amore, chi la speranza e la vita. Perché quelle fiamme, seguite da quel fumo grigio, acre e intenso, hanno inghiottito le persone con una furia distruttiva che non ha lasciato scampo. Perché quel giorno sono morte 262 persone su 275 presenti.
E anche se di anni ne sono passati, da quella calda mattina dell’8 agosto del 1956, quello che è accaduto a Marcinelle non può essere dimenticato. Non è possibile perché si tratta di una delle tragedie più cruente dell’intera storia dell’umanità.
8 agosto 1956, i fatti
Oggi la miniera di carbone di Bois du Cazier è diventata un sito patrimonio storico dell’Unesco. Oggi quella stessa miniera è il luogo della memoria che racconta, nel suo silenzio e nella solitudine, quella che è una delle tragedie minerarie più dolorose della storia. Una storia di tutti che, però, ci riguarda da vicino e che è strettamente collegata con il fenomeno della migrazione italiana.
Quello che è successo, quel’8 agosto del 1956, lo sappiamo tutti. 262 minatori hanno perso la vita. Sono morti a causa delle ustioni provocate dall’incendio, ma anche per aver inalato il fumo e i gas tossici. Cadaveri, questo è tutto ciò che restava in poche ore di chi aveva scelto di raggiungere la località belga con il cuore colmo di speranza. Di queste persone, 136 erano italiane.
Vivevano lì, a Marcinelle, con la speranza di una vita migliore. Erano stati arruolati per combattere la battaglia del carbone, erano migranti regolari e irregolari. Ed erano tanti, sparsi in tutte le miniere del Belgio. Ma chi era arrivato a Charleroi, quella battaglia l’ha persa.
Nel sito di Bois du Cazier, oramai dismesso e diventato patrimonio storico dell’umanità Unesco, un imponente incendio scatenatosi nel pozzo dell’entrata dell’aria ha generato un fumo che ha raggiunto ogni angolo della miniera e che ha causato la morte dei minatori. Un incendio scaturito da un errore dovuto ai tempi di avvio degli ascensori, un errore che è stato pagato con la vita di chi lavorava lì.
Il fumo denso e grigio, contraddistinto da sfumature nere e un odore insopportabilmente acre, è continuato a fuoriuscire dalla miniera per settimane, mentre tutti gli altri tentavano una disperata ricerca dei sopravvissuti. Ma c’erano solo cadaveri. La tragedia era stata consumata.
Dopo i fatti di Marcinelle ci furono due processi, accompagnati da perizie e documenti, da imputati a assolti. Alla fine solo una persona fu condannata per quella strage. L’ingegnere Calicis ottenne come pena sei mesi con la condizionale e una multa di 2000 franchi belgi.
Le voci e le storie della miniera
La miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle oggi è un sito della memoria, un patrimonio dell’umanità intera protetto e preservato che ha come obiettivo quello di non dimenticare mai quello che è successo l’8 agosto del del 1956.
A far sì che questa strage non venga mai dimenticata, però, ci sono anche gli altri. Quelli che sono sopravvissuti, quelli che in tutti questi anni hanno cercato disperatamente di trovare delle ragioni a quello che è stato uno degli errori più fatali della nostra storia.
C’è Urbano Ciacci, uno dei pochissimi sopravvissuti al disastro di Marcinelle, l’uomo che ha scelto di dedicare la sua vita alla memoria, accompagnato tutti i giorni, dopo il disastro, le persone alla miniera che oggi è patrimonio Unesco.
Originario di Fano – matricola 709 – Urbano Ciacci era arrivato in Belgio a 18 anni. Proprio l’8 agosto aveva iniziato a lavorare a Bois du Cazier, ma non era ancora sceso nelle viscere della miniera. È per questo che si è salvato. Eppure non è mai scappato da quel ricordo, ha continuato a indossare la sua divisa di lavoro, con tanto di casco allacciato, tutti i giorni. Lo ha fatto per dovere, più che per necessità. Lo ha fatto perché ha scelto di fare sua la missione di ricordare i suoi colleghi scomparsi nella tragedia. Perché ha dovuto portare addosso, per una vita intera, il senso di colpa di essere sopravvissuto. E allora ha scelto di vivere per ricordare, fondando l’Associazione Minatori Vittime del Bois du Cazier.
Anche Lino Rota si trovava in Belgio nel giorno della tragedia. Lui che aveva lasciato la sua Locatello per sporcarsi di carbone, lui che ha visto con i suoi occhi i colleghi morire. Non si trovava a Bois du Cazier quell’8 agosto, ma in un’altra miniera a pochi chilometri di distanza. Anche lui, però, come gli altri, era uno dei tanti migranti arrivati nel Paese per combattere la guerra del carbone. Raggiunse il sito di Marcinelle solo dopo lo scoppio dell’incendio, e fu allora che guardò in faccia con i suoi occhi l’inferno. Fuoco, fiamme, fumi e gas, al suo arrivo era ormai troppo tardi.
E poi c’è Michele Cicora, l’uomo che quell’inferno non lo ha visto, ma lo ha vissuto indirettamente perdendo all’età di 4 anni una delle figure più importanti della sua vita. Suo padre, infatti, era un minatore di Marcinelle. La sua non è stata solo una battaglia per la memoria, la sua è stata una promessa, quella di riportare suo padre a casa. Alcuni dei cadaveri dei minatori di Bois du Cazier, infatti, non sono mai stati riconosciuti e sono diventati gli “inconnus”. I loro cadaveri sono stati seppelliti nel cimitero dietro la miniera, quello raggiunto da visitatori e da parenti che non hanno potuto piangere la salma dei loro cari.
Ed è per questo che ha combattuto Michele Cicora, per ritrovare suo padre e gli altri. Per riportarli a casa. Dopo una vita di battaglie è riuscito a ottenere la riesumazione di quei corpi rimasti senza nome, perché mai riconosciuti, per effettuare un prelievo dai resti dei campioni di DNA. Per dare un nome e un cognome agli iconnus – gli sconosciuti – per ricostruire le storie di tutti.