Il caso Hakamada e la condanna a morte senza fine

Il suo nome è Iwao Hakamada, ed è l'uomo che più di tutti ha trascorso del tempo nel braccio della morte. Dopo 45 anni il suo caso potrebbe essere riaperto

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

La nostra società è fatta di storie. Ci sono quelle belle, che fanno sognare, e quelle brutte che servono a non dimenticare. Ce ne sono alcune che non sembrano destinate ad avere il lieto fine e, altre ancora, che invece si guadagnano un posto d’onore nella memoria collettiva per fatti, aneddoti e primati.

La storia che vogliamo raccontarvi oggi parla proprio di un primato. Non uno di quelli goliardici, divertenti o irriverenti che siamo abituati a vedere in televisione, ma quello di un uomo che, condannato colpevole per un omicidio di massa, ha trascorso più di 40 anni all’interno del braccio della morte.

Il 10 marzo del 2011, il Guinness dei Primati, lo ha inserito nella sua lista proprio per questo motivo. Il suo nome è Iwao Hakamada e questa è la sua storia.

Chi è Iwao Hakamada

Gli appassionati di pugilato ricordano sicuramente il suo nome, quello di Iwao Hakamada, il pugile condannato a morte per un omicidio di massa avvenuto nel 1966 e ribattezzato dai media come Incidente di Hakamada.

La sua storia comincia nel lontano 1936, quando Iwao nasce il 10 marzo a Shizuoka, in Giappone. Cresce in città, con la sua famiglia, con Hideko, sua sorella maggiore e con Shigeji, il fratello deceduto nel 2001.

Sin da bambino si appassiona allo sport, e più nello specifico al pugilato. All’età di 20 anni Iwao Hakamada è già un pugile professionista che vanta all’attivo 30 incontri sul campo. La sua carriera si interrompe nel 1961, da quel momento l’uomo inizia a condurre una vita tranquilla e lontana dai riflettori trovando impiego all’interno di una fabbrica di miso, almeno fino al 1966, anno che cambierà per sempre la sua vita.

L’incidente di Hakamada

Tutto cambia velocemente e improvvisamente quando scoppia un incendio all’interno dell’abitazione di uno dei proprietari dell’azienda per cui lavora l’uomo. È il 30 giugno del 1966 e Iwao Hakamada si trova lì, su quella che poi si scopre essere la scena di un delitto.

Secondo le prime ricostruzioni l’ex pugile si trovava lì, in quella casa di Shizuoka, per soccorrere i suoi abitanti, per spegnere l’incendio. La sua versione, però, non coincide con quello che le autorità trovano una volta arrivati sul posto. Il capo di Hakamada, sua moglie e i loro figli erano stati assassinati, pugnalati ferocemente a morte.

Dalla scena del crimine, inoltre, mancano dei soldi: alla famiglia sterminata sono stati sottratti circa 200.000 yen prima di appiccare l’incendio. Hakamada non è solo il testimone di quella scena, ma diventa anche il principale indiziato. Dopo un lungo interrogatorio, e il rinvenimento di macchie di sangue e tracce di benzina sui suoi indumenti, l’uomo viene arrestato.

La confessione e la condanna

Iwao Hakamada, dopo 23 giorni e un totale di 264 ore di interrogatorio, confessa l’omicidio del suo capo. Le affermazioni, però, non sono vere, o almeno è questo quello che dichiarerà l’uomo, supportato dai suoi avvocati, in sede di processo. Secondo la loro versione, infatti, la confessione non è stata spontanea, ma è avvenuta dopo la coercizione da parte delle forze dell’ordine.

Durante il processo l’uomo si dichiara innocente e completamente estraneo ai fatti. È in quella occasione che emergono tutta una serie di dettagli che iniziano a creare delle lacune nel caso. Non è solo l’interrogatorio basato sulla violenza e sulle privazioni a far dubitare, ma anche il fatto che i capi d’abbigliamento insanguinati non appartenessero in realtà all’uomo.

Il caso Hakamada diventa così di dominio pubblico, attirando a sé un forte interesse mediatico. A capeggiare i numerosi sostenitori dell’innocenza dell’uomo c’è Hideko, sua sorella, che porterà avanti questa lotta per oltre 40 anni, fino a oggi.

Nonostante il tribunale di Shizuoka ammonisce il comportamento della polizia per le tecniche illecite utilizzate durante l’interrogatorio, l’uomo viene considerato colpevole. L’11 settembre del 1968, la giuria condanna l’ex pugile a morte. A nulla sono serviti i successivi appelli, sia l’Alta Corte di Tokyo che la Corte Suprema del Giappone hanno confermato la condanna. Da quel momento, e per tutti gli anni successivi, Iwao Hakamada si è sempre dichiarato innocente ed estraneo ai fatti.

“Ti dimostrerò che tuo padre non ha mai ucciso nessuno, ed è la polizia che lo sa meglio e sono i giudici che si sentono dispiaciuti. Spezzerò questa catena di ferro e tornerò da te” (Lettera di Iwao Hakamada a suo figlio, 1983)

Hideko Hakamada con una foto di suo fratello
Fonte: Getty Images
Hideko Hakamada con una foto di suo fratello

45 anni dopo

Sono passati 45 anni dall’arresto e dalla condanna a morte di Iwao Hakamada, un tempo che ha trasformato l’ex pugile, secondo il Guinness dei Primati, nell’uomo che, più di tutti, è stato detenuto nel braccio della morte. Nonostante la conferma della condanna, da parte della giuria prima, e dell’Alta Corte di Tokyo e della Corte Suprema dopo, l’esecuzione non è mai avvenuta.

A fermarla, in tutti questi anni, è stato il Ministero della Giustizia, non convinto pienamente del coinvolgimento dell’uomo dei fatti avvenuti nella di Shizuoka.

In questi anni Iwao Hakamada è stato sostenuto da tantissime persone, tra cui anche alcuni membri di spicco del pugilato nazionale. Lo stesso Norimichi Kumamoto, uno dei giudici che lo aveva condannato colpevole nel 1968, ha ritrattato la sua decisione nel 2007.

A schierarsi dalla parte di Hakamada anche Amnesty International che ha collaborato in tutti questi anni insieme alla Japan Pro Boxing Association per chiedere la riapertura del caso.

Nel 2008, anche grazie al clamore di tutta la vicenda, è stato effettuato un nuovo test del DNA, messo in dubbio poi dall’accusa, sui capi d’abbigliamento macchiati di sangue, utilizzati anni prima per dimostrare la colpevolezza dell’ex pugile. I risultati hanno restituito che il sangue ritrovato non corrispondeva a quello di Hakamada.

Nel 2014, il tribunale di Shizuoka che l’aveva precedentemente condannato, ha concesso la libertà vigilata all’uomo in attesa di un nuovo processo. La stessa Amnesty International in questi anni si è battuta affinché questo avvenisse.

“La storia di Iwao Hakamada ci dice che non dobbiamo mai smettere di lottare per il rispetto dei diritti umani. Iwao è stato condannato all’impiccagione per quadruplice omicidio e la sentenza si basava su una confessione, estorta con maltrattamenti e per sfinimento, dopo 20 giorni di estenuanti interrogatori, pestaggi e intimidazioni” – ha dichiarato Ileana Bello, direttrice generale di Amnesty Italia, in un’intervista su Vanity Fair“Eppure, da quell’11 settembre 1968 né lui, né i suoi familiari, né i suoi difensori, hanno mai perso le speranze. Ci auguriamo che Hakamada possa essere in aula durante il processo e possa finalmente ascoltare la parola che attende da oltre mezzo secolo: innocente”.

E alla fine, dopo una battaglia interminabile durata 45 anni, l’Alta Corte di Tokyo ha deciso che l’ex pugile merita un nuovo processo, tenendo conto di tutte le prove raccolte fino a questo momento.

Iwao Hakamada oggi
Fonte: Getty Images
Iwao Hakamada oggi