Esce a distanza di due anni dalla prima ondata della pandemia da Covid-19, “Senza sosta”, documentario che racconta “Storie di madri sanitarie in prima linea nelle corsie degli ospedali, durante l’emergenza”, e quando Sara Avesani, giornalista veronese, classe 1981, mi ha contattata per presentarmelo ho realizzato che fosse un argomento perfetto da trattare su DiLei. Insieme alla redazione abbiamo pensato di fare un ulteriore passo, condividerlo e intervistare la curatrice, quella che con una squadra di donne è riuscita a trasformare le parole in immagini, raccontando uno spaccato di vita nascosto, ma conosciuto a quell’esercito silenzioso di mamme che durante la pandemia si è ritrovata a dover far coesistere affetti e professione. E se il lavoro era quello di medico, è diventato tutto estremante difficile. Conciliare lavoro e famiglia non è affatto facile, lo sanno le donne che ogni anno lo lasciano perché non hanno scelta. La pandemia non ha fatto che ampliare questo fenomeno ancora di più, la disoccupazione femminile, dimissioni e licenziamenti sono aumentati a dismisura (dati ISTAT alla mano). C’è però una categoria di donne che, anziché perdere il lavoro, ha rischiato di perdere la famiglia. Sono le madri sanitarie, che, alla chiamata alle armi hanno detto sì, senza alcuna esitazione. “Cercare di essere una buona mamma è stata per me sempre la cosa che mi sono ripromessa per ognuno dei miei figli e di figli ne ho tre. Fare il medico però è la mia vocazione fin da quando sono bambina. Quando ci è stato chiesto di dare una mano a febbraio, senza pensarci un attimo, ho preso e sono andata in ospedale.”
Come nasce l’idea di questo video?
Con due figlie piccole a casa, il lavoro e l’ansia per quanto stava accadendo, io e mio marito durante la prima ondata della pandemia Covid 19 eravamo in difficoltà: molti genitori come noi sopravvivevano, nulla più. Ogni volta che guardavo un telegiornale mi chiedevo “Come fanno queste donne sanitarie a conciliare lavoro e famiglia, ad andare in ospedale tutti i giorni, a combattere un nemico oscuro che uccide senza tregua e poi tornare dai propri figli, magari regalando un sorriso per non far trasparire la loro sofferenza?” La sensazione di ammirazione ci ha portato ad approfondire il tema, concentrandoci sul vissuto tra le mura di casa e sulla sfera più intima del rapporto madre-figli. L’attenzione mediatica su queste madri-lavoratrici sanitarie si è spesso fermata a quanto succedeva nei reparti ospedalieri.
Chi partecipa?
Questo documentario è un lavoro di squadra, fortemente condiviso e portato avanti, come una sorta di ringraziamento a queste donne. Rivela uno spaccato su una categoria di “angeli” che ha portato avanti il Paese, senza mai tirarsi indietro con un carico emotivo duplice, a lavoro e a casa. Vogliamo parlare di donne e di bambini, i soggetti più colpiti dagli effetti della pandemia. Le interviste che abbiamo raccolto coinvolgono mediche, infermiere e psicoterapeute. Le loro storie si intrecciano in continuazione ma ognuna di esse mantiene caratteristiche di un sentire profondamente personale, legato all’amore incondizionato per i propri figli, motore della loro salvezza interiore.
Perché le donne sono costrette a lavorare il doppio per prendere sempre meno dei colleghi maschi?
Nonostante i proclami sono troppe ancora le donne che devono dimostrare di più, per ottenere lo stesso di un collega uomo. Questo vale però non solo in ambiente sanitario ma in tutti gli ambiti lavorativi. Viene ancora inseguito un modello maschile che non può e non deve essere imitato e imposto alle donne: va ripensato, accogliendo le differenze come una ricchezza. Uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è la parità di genere sul lavoro. Il numero cinque, in particolare, “mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione”. Il documentario vuole dare una spinta in questo senso e far comprendere, attraverso un tema delicato ma semplice allo stesso tempo, lo sforzo che deve essere compiuto dalla società e dalle istituzioni.
E soprattutto perché la considerazione spesso non è adeguata al loro reale valore?
Il valore di queste professioniste dovrebbe essere premiato e il loro esempio riconosciuto da tutti. Queste donne, alla chiamata alle armi, hanno detto sì, senza alcuna esitazione. “Cercare di essere una buona mamma è stata per me la cosa che mi sono ripromessa per ognuno dei miei figli e, di figli ne ho tre. Fare il medico però è la mia vocazione fin da quando sono bambina. Quando ci è stato chiesto di dare una mano a febbraio, senza pensarci un attimo, ho preso e sono andata in ospedale”. Ecco questo “senza pensarci un attimo”, questo “senso di responsabilità” sia tema di riflessione. Ancora oggi, pensare che le protagoniste di questo documentario, come tutte e tutti gli operatori sanitari, debbono sentire l’ingratitudine, il menefreghismo di chi non ha la più pallida idea di cosa sia proprio questo “senso di responsabilità” e di “bene comune”, rappresenta una ferita che brucia. Il riconoscimento più importante resta comunque quello dei propri figli: “mamma, da grande voglio fare il medico”.
Quali sono secondo voi i problemi psicologici che a lungo termine potranno subire i figli delle donne medico che durante la pandemia hanno vissuto una situazione di isolamento?
La pandemia ha svelato che l’anello debole di questa società ma anche l’anello più importante sono le donne e i bambini. Questi bambini hanno vissuto una solitudine sociale, stando in un ambiente domestico, fuori da quei rapporti che sono normali per i bambini e, una solitudine familiare, soprattutto nel legame con la madre, eppure nessuno ne ha parlato. Ancora non ci sono studi che identificano bene il fenomeno. Le madri intervistate, insieme ai loro mariti, compagni, hanno dovuto fare delle scelte per salvaguardare al massimo la salute e la psiche dei propri figli. Hanno affrontato una sfida difficile, nelle corsie degli ospedali, assistendo malati di Covid ma anche nelle proprie case. Si sono dovute mettere di fronte alla realtà di un distanziamento, fisico prima di tutto: quello mentale era da scongiurare. Depositare sulla soglia di casa i malumori, le vicende strazianti dei pazienti, la tristezza di una situazione incontrollabile, e dotarsi di un sorriso per quei figli a casa, a cui però erano riservati tutti i pensieri e le speranze. “E’ l’amore dei miei figli che mi ha salvata”. Tanti hanno dormito nei garage e salutavano i propri figli dal citofono, altri hanno diviso la casa a metà, alcuni li hanno lasciati alla cura dei nonni “mandare i nostri bambini dai nonni è stata la cosa più giusta da fare, soprattutto per proteggerli da quello che stava succedendo dentro di noi, non tanto fuori, ma proprio dentro. Quel senso di impotenza e la paura della morte erano pensieri che non ci lasciavano mai”.