Valentina Petrillo, l’atleta transgender contro le barriere: “La mia storia per un futuro senza pregiudizi”

Valentina Petrillo è un'atleta transgender. La sua è una storia di lotta contro stigma e stereotipi, verso uno sport che sappia essere pluralista e inclusivo

Foto di Giorgia Prina

Giorgia Prina

Lifestyle Specialist

Web Content Creator e Internet addicted che ama la complessità del reale. La passione più grande? Sciogliere matasse con occhio critico e ironia.

Lo sport che abbatte le barriere. Lo sport che incarna uguaglianza, possibilità, perseveranza. Eppure, l’immagine pluralista dell’attività sportiva, inclusiva e che premia il valore dei singoli atleti, nel 2024, è ancora lontana dall’essere raggiunta. Lo sa bene Valentina Petrillo, velocista transgender che corre per sfidare stigma e pregiudizi nel mondo dell’atletica leggera. La sua storia viene raccontata, dalla sua stessa voce, nel documentario We All Play, prodotto da Rakuten TV, fa parte dei Rakuten Originals, disponibili gratuitamente in piattaforma  e diretto dal regista spagnolo Pablo De La Chica, disponibile dal 18 luglio 2024 gratuitamente in tutta Europa. Storie di atlete che raccontano apertamente le loro storie al fine di ispirare un cambiamento inclusivo nello sport e superare le discriminazioni.

Valentina Petrillo è la voce italiana che nutre il documentario con il suo vissuto e la sua forza. Valentina è un’atleta, partecipa a competizioni di atletica leggera paralimpica ed è stata la prima donna transgender a farlo, segnando un primato, mondiale e italiano. La sua è una storia da ascoltare e su cui ragionare, soprattutto a pochi giorni dall’inizio dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, per capire un mondo di cui poco si sa e di cui poco si parla.

Valentina Petrillo, donne transgender nello sport: “Stigma e pregiudizi”

Valentina Petrillo è un’atleta, una campionessa. Scende sulla pista portando il suo corpo, il suo vissuto e la sua voglia di essere un modello, per le donne come lei, che nel futuro, forse, potranno avere la possibilità di gareggiare senza dover lottare con un mondo che si chiede sempre “cosa ci facciano lì”. Con le sue parole: “Credo che sia sempre importante soprattutto parlare di queste cose che sono comunque nuove. Nello sport una persona transgender è accompagnata da tanti pregiudizi, stereotipi e stigma: per questo è importante che se ne parli”.

Valentina, come è nato il tuo amore per l’atletica e qual è la storia che porti con te in pista?
Mi sono approcciata all’atletica fin da piccola, avevo appena 7 anni ho visto il mio idolo Pietro Mennea vincere le Olimpiadi di Mosca nel 1980, nei 200 metri. Da quel giorno mi sono innamorata dell’atletica leggera e in particolare della corsa veloce. Lì è iniziato il mio sogno di emulare Pietro, ma c’era un piccolo problema, che volevo farlo come donna, ma sono nata maschio. Questo è stato un problema che mi sono portata dietro tutta la vita, cercando delle risposte che non ho mai trovato. Non avevo modelli di riferimento, e non solo di tipo sportivo. Non mi sentivo rappresentata. Anche complice il fatto di aver avuto una cugina dichiaratamente transgender che venne cacciata di casa io mi sono tenuta tutto dentro di me cercando di vivacchiare, di sopravvivere. Ho fatto una vita da etero (anche se non bisogna confondere identità di genere e orientamento sessuale).

Valentina Petrillo nel documentario "We All Play"
Fonte: Ufficio Stampa Rakuten
Valentina Petrillo nel documentario “We All Play”

Ho così “tenuto a bada” tutto il mio mondo femminile fino al 2017, quando ho sentito scricchiolare alcune mie certezze. Nel 2018 ho fatto il mio ultimo anno come maschio nell’atletica leggera paraolimpica. Poi però nel 2018 non me la sono più sentita di partecipare nella categoria maschile, non ce la facevo più, per me era diventata una vera e propria violenza vestire i panni di chi non sono.

Cosa è successo nel 2018?
Nel 2018 ho lasciato l’atletica come maschio perché avevo iniziato un percorso di terapia in un centro specializzato a Bologna, dove abito. Lì venne fuori che avevo una disforia di genere. Quindi per stare meglio con me stessa una delle strade possibili era intraprendere una terapia ormonale. A quel punto sarebbero cambiate molte cose insieme al mio corpo. Non potevo più fare sport, e non me la sentivo neanche, con gli uomini. A quel tempo non c’era un regolamento rispetto a questi casi, c’erano solo le linee guida del Comitato Olimpico Internazionale che nel 2015 lanciò delle indicazioni per le federazioni, che potevano decidere di recepire o meno. Erano linee guida importanti e inclusive, perché le persone transgender erano contemplate. Era un importante segnale di apertura. Dal 2015 c’è stato da parte della federazione un processo progressivo di inclusione.

Quando ho iniziato la terapia ormonale, a gennaio 2019, poco dopo ho contattato World Athletic, che all’epoca si chiamava IAF. A quel punto ho cercato una soluzione, perché volevo continuare a fare sport e farlo nel mio genere d’elezione, nel mio, come donna, era un sogno. Sono stati periodi in cui ho comunque lasciato l’attività agonistica, ma nel 2019 con il nuovo regolamento sono cambiate molte cose. Ho collaborato con i medici per dare il mio contributo a questo, dando il mio consenso alla sperimentazione scientifica, in quanto il mio era il primo caso a livello professionistico era importante per i medici che il mio caso venisse studiato. Ho dato la mia testimonianza e il mio corpo da studiare. Ho sempre voluto guardare al futuro, a quelle come me che un giorno, forse, potranno avere la possibilità di gareggiare nel genere d’elezione e farlo con meno difficoltà rispetto a quelle che ho avuto io.

Qual è la situazione, adesso, delle persone transgender nello sport?
Le persone transgender sono state escluse dallo sport fino al 2002. In questo anno World Athletics (allora IAF) ha incluso le persone transgender posto che abbiano rettificato i documenti e fatto l’intervento chirurgico di cambio del sesso e abbiano due anni di terapia ormonale. Poi sono uscite le linee guida del 2015.

Le linee guida del 2015 sono culminate nel 2019 con l’emanazione di un regolamento inclusivo da parte di World Athletics, che è la federazione internazionale dell’atletica leggera, che per la prima volta includeva le persone transgender senza l’obbligo di modificare i documenti ma “solo” di dimostrare di avere un livello di testosterone ematico non superiore a un certo livello.

L’11 settembre 2020 ho fatto la mia prima gara nel mondo paralitico con un alias femminile ma documenti maschili. Esattamente un mese dopo ho fatto la mia prima gara nel mondo senza disabilità. A livello di regolamento nel 2022 sono entrate in vigore le nuove linee guida del Comitato Olimpico Internazionale, che sono ancora più inclusive e non prevedono più neanche i controlli del testosterone, ma si basano su un concetto semplice e banale (che poi banale non è evidentemente): viene emanato un decalogo di 10 indicazioni per la non discriminazione delle persone transgender.

Tra queste quella che per me è più importante è la numero 5, che è la “non presunzione di vantaggio”: basandosi su degli studi dice che non possiamo dare per scontato che una persona transgender, quindi un uomo che si identifica nel genere femminile, per il fatto che sia stata uomo conservi e abbia un vantaggio biologico. Non possiamo affermare che qualsiasi uomo sia più forte di una qualsiasi donna. Possiamo affermare che la media prestazione tra uomo e donna privilegi l’uomo, anche se non tutti gli sport, ma bisogna anche notare che questo gap prestazione si sta assottigliando, anche grazie alle maggiori possibilità e chance anche di tipo culturale che la donna ha oggi rispetto all’uomo.

Poi nel 2023 tutto questo subisce un arresto. Nel 2023 alle persone transgender viene richiesto l’inizio della terapia ormonale entro il dodicesimo anno di età, quindi entro l’inizio dell’età puberale. Credo che la loro richiesta sia abbastanza “fake”, non so come chiamarla. Ci troviamo di fronte a una falsa inclusione. Si tratta di una decisione che prevede una non-inclusione in quanto in Italia, così come nel resto del mondo, accedere a una terapia ormonale entro il dodicesimo anno di età è pressoché impossibile ed è appannaggio di pochissimi “esemplari”. Apre anche scenari di tipo etico in quanto dovremmo mettere fretta a un bambino di nove o dieci anni il quale dovrebbe mettersi in contatto con psicologi, parlare ai genitori, mettersi di fronte a scelte difficili e importanti fino quasi a dirgli “se vuoi fare attività sportiva muoviti”. Viene chiesto un uso del farmaco per bloccare lo sviluppo ormonale di cui tra l’altro recentemente l’AIFA ha messo in dubbio la sicurezza. World Athletics chiede qualcosa che non si può fare.

Come vedi Parigi 2024?
Le olimpiadi sono state vietate alle donne fino al 1964 a Helsinki e che solo quest’anno abbiamo la reale parità di genere alle Olimpiadi: a Parigi avremo un numero pressoché pari tra uomini e donne in gara. Non è mai successo. Non ne parla nessuno, è una cosa che da’ fastidio, è un problema culturale relativo alla donna e alle possibilità della donna. Ha molte meno possibilità dell’uomo.

Per questo penso che il mio caso possa aiutare a rompere gli stereotipi sempre presenti sulle donne, sui loro corpi, sulle loro attività: sono convinta che la donna ci stupirà in futuro.

Il mio caso è ancora un po’ più paradossale, perché sono stata inclusa nel 2019, nel 2023 non c’è nulla di nuovo a livello di studi, c’è solo un discorso di tipo politico, siamo ingiustamente escluse dallo sport. Se io posso partecipare a Parigi è perché il mondo paralimpico recepisce il regolamento del 2022.

Come scenderai in pista alle Olimpiadi di Parigi 2024?
La mia corsa a Parigi 2024 porta tanti messaggi. L’importante è che si possa guardare alle persone transgender in maniera diversa. Abbiamo la grande possibilità di portare l’attenzione sul valore sportivo e non è poca cosa, visto che siamo sempre pesate del solito bollino, che vorrei che fosse finalmente eliminato dalle nostre vite, uscendo da quello che il mondo vorrebbe che noi fossimo.

Oggi spira un vento negativo nei nostri confronti, e questo fa male, anche gli attacchi di un mondo femminista estremista. Io sono convinta (e il mio posto a Parigi è già qualcosa di nuovo nel mondo dello sport) che le cose cambieranno e mi piacerebbe essere quel modello che è mancato a me.

A Parigi 2024 vado con la consapevolezza che su 82 mila spettatori, 80 mila si chiederà perché gareggio con le donne. Penso che ben venga il documentario di Rakuten, ben vengano queste informazioni, credo che ci sia un problema a livello di comunicazione ma soprattutto di una comunicazione sbagliata.

Facci un esempio.
Faccio un esempio banalissimo. Nel 2020 battei una campionessa del mondo alla mia prima competizione. Dopodiché l’ho battuta alla mia ultima competizione, nel 2020 e nel 2023. Gli articoli hanno parlato di queste mie vittorie, che non sono neanche state vittorie schiaccianti, ma nessuno ha mai parlato del fatto che dal 2020 al 2023 la stessa persona mi abbia sempre battuta.

Questo è il problema, che non ci sono informazioni. Io concedo a tutti la mia storia, voglio che diventi pubblica perché credo che serva. Ed è stata comunque difficile farlo, concedere la mia vita a un pubblico in cui sono guardata e giudicata in un certo modo e questo porta grandi problemi a me e alla mia famiglia. Credo che tutti noi dobbiamo fare uno sforzo per portare un certo tipo di informazione. Io non sono il dogma, la legge, non dico che questo sia universalmente giusto, ma penso che con le giuste informazioni possiamo svicolarci da pregiudizi, preconcetti con cui siamo nati, perché la società ci riempie di tutto questo. Riscontro che si ha paura, paura del diverso. Anche rispetto al mio gareggiare come ipovedente è avvolto nel mistero, non si sa bene cosa voglia dire, cosa significhi, quali siano le implicazioni.

Qual è la paura rispetto alla partecipazione di donne transgender alle gare?
Fa tanto notizia che un ex-uomo partecipi alle gare, ma se andiamo a guardare i 7 anni in cui un uomo poteva gareggiare con le donne senza neanche il cambio di documenti, abbiamo avuto 2, 3, forse 4 donne transgender che hanno fatto risultato. Prendiamo il caso di Laurel Hubbard, alle Olimpiadi di Tokyo 2020 non si è neanche qualificata in finale perché non è riuscita a sollevare il peso.

Questo paventato strapotere e la paventata invasione degli uomini nel mondo dello sport femminile non c’è stata. C’è la paura di dover difendere il mondo femminile da chissà quale pericolo: bisogna guardare i dati per uscire da stigma e pregiudizi. L’unica che ha vinto in uno sport individuale qualcosa sono io con due bronzi l’anno scorso ai mondiali, ma nel mondo paralimpico. Mondo paralimpico che non può essere portato come valore assoluto. Io gareggio con persone che hanno la mia stessa problematica agli occhi. Diventa un caso unico che non possiamo portare come esempio e termine di paragone.

C’è una soluzione a tutto questo?
Una soluzione io la sto elaborando, ce l’ho. Almeno per lo sport, che oggi sicuramente non è espressione di una pluralità. Il mondo dello sport deve lavorare a un’uscita dalla visione di due immagini di corpi, al binarismo di genere. Non è più questa la società, dobbiamo usare altri parametri, altre classificazioni. Dobbiamo rendere le cose più semplici là dove possibile. Non bisogna avere paura di questo fenomeno, che oggi dobbiamo definire tale, ma che vorrei diventasse la normalità.Credo che sia importante la mia partecipazione perché sarà il segno che qualcuno ce l’ha fatta.