Domenico Iannacone: “Altre puntate di Che ci faccio qui? Se la Rai me le chiede, le farò”

Successo per "Che ci faccio qui". Domenico Iannacone: "Lavoro in Rai da 23 anni e credo che il servizio pubblico abbia questo mandato"

Foto di Federica Cislaghi

Federica Cislaghi

Royal e Lifestyle Specialist

Dopo il dottorato in filosofia, decide di fare della scrittura una professione. Si specializza così nel raccontare la cronaca rosa, i vizi e le virtù dei Reali, i segreti del mondo dello spettacolo e della televisione.

Domenico Iannacone è uno dei giornalisti più profondi e seguiti della televisione. Dopo oltre due anni di assenza, è tornato sul piccolo schermo dove conduce per Rai 3 la nuova edizione di Che ci faccio qui, prodotto da Ruvido Produzioni. Tre puntate, l’ultima in onda in prima serata giovedì 13 giugno, per raccontare le sue storie, ripercorrendo un viaggio nel profondo Sud del Paese per capire se qualcosa è mutato o se tutto è rimasto come un tempo.

A noi Domenico Iannacone ha raccontato il senso di Che ci faccio qui, come e se è cambiato il modo di fare inchieste in televisione e del grande affetto e sostegno del pubblico che aspettava da molto poterlo ritrovare di nuovo in Rai coi suoi racconti.

Qual è il focus di questa nuova edizione di Che ci faccio qui?
Ho voluto riprendere le fila delle storie che ho raccontato in questi anni. È un elemento che mi permette intanto di verificare quello che è accaduto nel frattempo, a distanza di 7-8 anni, e poi di allargare gli orizzonti, perché da quelle storie se ne innestano di nuove che a loro volta hanno altri sviluppi. Dunque, è un meccanismo che mi consente di verificare che cosa si è trasformato, che cosa è migliorato o peggiorato delle situazioni e degli ambienti che ho raccontato in questi anni, cui si unisce la possibilità di raccogliere nuove testimonianze ed è la cosa che più mi piace.

Lei ha fatto un confronto tra il passato e il presente, ha trovato delle differenze nel modo di raccontare in televisione queste storie e di fare giornalismo?
Per quanto mi riguarda cerco di essere coerente. La televisione sta cambiando anche il metodo del racconto. In generale, la tv è più sincopata, frenetica, con meno pause e non permette di andare in profondità. In questi due anni e mezzo di assenza dagli schermi, mi sono accorto che manca questo aspetto, cioè l’idea che il fatto venga raccontato internamente, mentre oggi è come se si facesse un volo in superficie. Un po’ perché le esigenze sono calibrate sui talk che utilizzano gran parte del tempo per il dibattito in studio, come se tutto quello che accade all’esterno, cioè il reale, fosse secondario. E questa cosa mi fa riflettere su come sia cambiata la televisione.

Questi cambiamenti sono peggiorativi?
Dal mio punto di vista la televisione ha avuto un peggioramento, perché è come se si fosse passato da un’analisi profonda delle cose a una più superficiale e la superficialità non è una bella cosa.

La televisione è cambiata, ma lo è anche il pubblico e il suo modo di recepire quello che viene trasmesso?
Se facessimo un esempio col cibo, potremmo dire che se tu dai solo una qualità di cibo alle persone, per quanto sia scadente, siccome è l’unica tutti mangerebbero quel cibo e direbbero che è buono. Ma ovviamente non è così. Bisogna nutrire le persone con alimenti buoni, con qualcosa che abbia a che fare anche con l’elevazione culturale.
Io lavoro per la Rai da 23 anni e credo che il servizio pubblico debba avere questo mandato, quello di fare in modo che chi guardi un programma televisivo, abbia poi la sera stessa e i giorni successi abbia la necessità di ripensare a quello che ha visto, perché deve farsi un’idea, deve comprendere com’è la situazione senza farsi travolgere dal populismo e dalla demagogia che spesso in qualche modo sta attanagliando la televisione.

Quindi ha ancora senso fare giornalismo d’inchiesta in tv?
Certo, perché è una sorta di baluardo in cui si registra la libertà che si ha nel raccontare e nel denunciare i fatti in generale. Quindi, credo che sia un valore che ha a che fare con gli elementi basilari della democrazia, una stampa e una televisione libere di raccontare senza oppressioni.

Lei è tornato in tv con Che ci faccio qui in un momento di grande cambiamento per la Rai?
Sì è vero, sono tornato in televisione in un momento particolare. Anche io arrivo da due anni e mezzo non facili. Benché abbia avuto offerte altrove, ho deciso di non accettarle, infatti mi sono detto: ‘Perché devo lasciare quella che ho sempre considerato la mia casa?’. Non sono un interno ma è da 23 anni che faccio programmi solo per Rai 3. Ad andarmene mi sarei sentito un po’ vigliacco e quindi ho deciso di fare un altro tentativo per vedere se era possibile tornare sullo schermo, senza lasciare nulla di intentato. E così è stato.

È stato soddisfatto dei risultati che ha ottenuto Che ci faccio qui?
Sì tantissimo. Tra l’altro la prima puntata ha avuto una critica favorevole e poi i nostri social sono un termometro. Lì si capisce quanta attesa c’era attorno al mio programma e questo mi consolo perché è come se mi ripagasse della malinconia di questi due anni e mezzo di lontananza. Io avevo trovato lo stratagemma del teatro che mi ha permesso di non arretrare di un centimetro rispetto al mio mandato. Quando la televisione non mi ha voluto, ho deciso di trasporre il mio racconto in una narrazione da portare nei teatri che per me sono come luoghi sacri, perché non c’è nessuna mediazione tra te e il pubblico. Le storie che ho portato così in giro per l’Italia hanno creato una sorta di affezione nelle persone che mi chiedevano come erano finite le vicende che raccontavo. Oggi, potrei dire, che il mio ritorno in televisione è stato arricchito dall’esperienza teatrale.

Il linguaggio teatrale rispetto a quello televisivo è stato più impattante?
Sicuramente il teatro dà un riscontro immediato e diretto. Già senti il pubblico, anche se non lo vedi sul palco. C’è il riscontro serale, l’abbraccio del pubblico che al termine dello spettacolo mi fermava per parlare di quello che avevano appena ascoltato. Questa è una cosa che mi ha fatto comprendere quanto sia stato importante aver trasmesso quel tipo di messaggio in tv, ha lasciato il segno. Il mio ritorno sullo schermo non poteva disattendere queste aspettative.

Lei prima ha parlato dei social, sono strumenti di comunicazione adatti per le sue inchieste?
I social sono dei mezzi di diffusione per fare arrivare delle informazioni che altrimenti non si diffonderebbero, ma non servono per l’approfondimento. I social sono degli strumenti che ci rapiscono ma poi c’è bisogno di approfondimenti.

Dopo queste tre puntate di Che ci faccio qui, pensa ce ne saranno altre?
Io lo spero. Se la Rai me lo chiedesse, lo farò con piacere. In ogni caso non farò morire questo progetto.