Conquistare il mondo, ma in punta di piedi. Dev’essere questo l’obiettivo che una giovanissima Norah Jones si poneva nel lontano 2002, anno in cui uscì il suo primo album dal titolo “Come Away With Me”, un invito al viaggio attraverso il jazz e il soul, tenuti insieme da uno stile raffinato e una voce unica, la sua.
Il successo è da subito straordinario, trainato anche da singoli entrati nella storia della musica come l’indimenticabile “Don’t Know Why”, una ballata leggera e serena che crea immediatamente un’atmosfera unica. Nei successivi anni, quella timida ragazza americana cresciuta a New York e in Texas, figlia di Ravi Shankar (tra i più grandi maestri di sitar che ebbe tra gli allievi anche i Beatles) e della cantante soul Sue Jones, ottiene un successo planetario. In quasi vent’anni di carriera può vantare ben 9 Grammy Awards vinti, 50 milioni di album venduti e i suoi brani hanno totalizzato oltre 6 miliardi di streaming.
Oggi, mentre la musica live lancia in tutto il mondo un disperato grido di dolore, Norah Jones sta per far uscire il suo nuovo album, “Til we meet again”, l’unico registrato interamente dal vivo. Fin dal titolo suona come un augurio, quello che si possa tornare presto ad abbracciarsi sotto al palco. “Til we meet again” raccoglie infatti le più belle performance di Norah registrate tra il 2017 e il 2019 nel corso dei suoi tour mondiali negli Stati Uniti, in Francia, Brasile, Argentina e ovviamente anche in Italia.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Norah per regalare a tutte voi questa intervista esclusiva.
Che significato ha per te un album completamente registrato dal vivo, in un momento di restrizioni alla musica live?
Penso che questo album sia soprattutto una bellissima raccolta di relazioni e rapporti che oggi mancano a tutti noi. La musica live nel mio caso ha ricoperto alcuni dei miei momenti preferiti degli ultimi anni, non solo per le performance in sé ma anche e soprattutto per l’interazione che si creava con chi era lì presente in quel momento. Per questo motivo ho scelto di non inserire in “Til we meet again” brani in cui non si sentisse il pubblico, nonostante il numero di registrazioni che avevo fosse molto ampio. Dato che ormai la tecnologia lo permette con facilità, abbiamo infatti registrato ogni concerto per otto anni, ma nonostante questo ho scelto solo le tracce in cui si potesse percepire fisicamente l’interazione della gente.
Un po’ come chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare lì.
Esattamente, pensa ad esempio ai live di Bob Marley o a quelli di Johnny Cash, fino al live di Judy Garland a Carnegie Hall: la partecipazione del pubblico è fondamentale, tanto quanto la musica che viene suonata. Questo è il motivo per cui ho cercato di raccogliere e tenermi stretta dei momenti come questi.
Tra le 14 tracce, ce n’è una anche registrata a Milano, al Teatro Degli Arcimboldi. Che rapporto hai, da un punto di vista musicale e anche personale, con l’Italia?
Mi piace tutto dell’Italia, soprattutto amo suonare nel vostro Paese. Gli italiani sono un pubblico fantastico, molto affettuoso. Ho un sacco di ricordi legati ai vostri teatri, dove ho suonato molte volte: sono dei luoghi stupendi e pieni di fascino. Un’altra cosa curiosa che ricordo è di aver suonato in Italia durante diverse elezioni, è strano ma è così.
Sono passati quasi 20 anni dal tuo debutto, durante i quali hai realizzato 9 album, vinto altrettanti Grammy Awards e preso parte a molti progetti, non solo musicali. Come fai a mantenere così viva la tua scintilla creativa?
Quando ero più giovane, ho avuto svariati momenti nei quali non mi sentivo più particolarmente creativa ed ero molto preoccupata per questo. Per fortuna questi periodi non sono durati a lungo e ho capito che le cose ciclicamente tornano, e tra queste anche la creatività. Se hai una ragione per suonare è giusto che lo fai, così come se non hai alcuna ragione è giusto interrompere e fare altro, per esempio ascoltare le canzoni di altri. Ogni aspetto artistico della nostra vita è bellezza e ci ispira in qualche modo, per questo ho cercato di non essere troppo pigra e trovare sempre la voglia di fare qualcosa, indipendentemente da cosa. Anche in questo periodo in cui le cose che si potevano fare non erano molte, ho cercato di non dimenticarmi come poter essere creativa. Ed è stato eccezionale, mi ha dato un grande stimolo.
Mi piace questa visione ciclica della creatività.
Non credo sia necessario continuare ad essere interessati dalla stessa cosa per sempre. Quando provo a fare qualcosa di nuovo, qualunque essa sia, noto che mi si riaccende anche la scintilla della creatività. Penso sia questo il segreto della mia.
Stiamo dando ovviamente per scontato il talento e la voce, la tua voce. Quanto tempo e quanta dedizione ci hai messo per trovarla?
Ti dico solo che canto da quando ho cinque anni, prima nel coro della chiesa e poi a scuola. Credo che questo mi abbia aiutato nel trovare la mia voce: ho impostato praticamente tutta la mia vita sulla musica. Oltretutto ho fatto generi molto diversi: quando ero al liceo mi concentravo completamente sul Jazz, poi mi sono trasferita in Texas e lì cantavo invece solo musica country. Ho quindi abituato la mia voce ad essere aperta, a cantare tutto quello che le veniva proposto. E questo l’ha resa una voce completa e creativa.
E come sei riuscita ad evitare il rischio di seguire troppo le altre voci femminili che ti hanno preceduta?
Quando ero a New York e suonavo principalmente musica jazz, mi piaceva un sacco ma non stavo assolutamente facendo qualcosa di originale. Rifacevo molte canzoni delle cantanti che ascoltavo all’epoca, come ad esempio Billie Holiday. Non sarei potuta rimanere a fare quello per sempre, in questo senso è stato importante iniziare a scrivere e cantare qualcosa di completamente mio. E anche iniziare a collaborare e suonare con altri cantautori e musicisti, mi ha aiutato molto in questo senso. Credo sia proprio così che sono riuscita a costruire la mia voce, che emerge poi nel mio primo album.
Raramente parli della tua esperienza come mamma: sei particolarmente riservata o c’è qualcosa che ti spaventa della vita pubblica?
Ho semplicemente scelto di non parlarne, perché penso che i miei figli non debbano essere esposti come lo sono io. Del resto io faccio la musicista: non credo faccia parte del mio lavoro, sarebbe come chiedere a Dave Ghrol che tipo di papà è.
E quindi, che tipo di mamma è Norah Jones?
(ride) Sto cercando di fare del mio meglio. Anche se quello sì, è sicuramente il mestiere più difficile.