Figli di nessuno è il libro sulla storia di Pasquale Guadagno scritto insieme alla giornalista Francesca Barra, pubblicato da Rizzoli.
Il 25 aprile 2010, Salvatore Guadagno ha ucciso sua moglie, Carmela Cerillo, la madre dei suoi due figli. L’ha strangolata per gelosia, considerandola “cosa propria”. Pasquale, all’epoca quattordicenne, si è trovato a portare un doppio fardello: quello di figlio della vittima e del carnefice. Ora, con la forza di chi ha attraversato il dolore e la resilienza, racconta la sua storia.
Figli di nessuno è un libro schietto e potente, narrato attraverso gli occhi di chi ha perso tutto, che non vuole essere solo una testimonianza personale, ma un grido di denuncia contro il silenzio che circonda la violenza di genere, come ci ha raccontato Francesca Barra.
Sei autrice con Pasquale Guadagno del libro Figli di nessuno. La prima domanda è proprio sulla scelta del titolo. Perché “Figli di nessuno”?
Perché Pasquale ha vissuto un profondo senso di abbandono da parte dello Stato: economico, psicologico, umano. Dopo la morte della madre, si è sentito orfano non solo dei genitori, ma anche di quell’unico punto di riferimento che avrebbe dovuto tutelarlo: lo Stato.
Un orfano che è anche figlio del carnefice. Una posizione davvero complessa la sua, difficile da accettare e affrontare.
Esatto. Pasquale non ha mai davvero fatto i conti con quello che è accaduto per tanto tempo. Io penso sempre a questo, quando racconto la storia di Pasquale. Immagina una domenica qualunque, il pranzo in famiglia del 25 aprile, la mamma che cucina i paccheri alla genovese, il suo piatto preferito. Lui che dopopranzo esce col cagnolino, il giro in paese e poi torni a casa … E poi, all’improvviso, il vuoto: la polizia, quella casa, che è la tua casa, in cui non entrerai mai più, tua madre che non rivedrai mai più, perché tuo padre l’ha uccisa strangolandola e andrà in carcere. E l’unico che ti rimane è tuo padre che è l’assassino di tua madre, mentre la famiglia paterna colpevolizza tua madre, la vittima, per quanto è accaduto. È una doppia violenza. Non solo sulla madre, ma anche sull’infanzia, sull’adolescenza, sui diritti di crescere in pace.

Qual è il messaggio che volete lanciare con questo libro?
Per Pasquale è stato un modo per chiudere un cerchio, per accendere una luce su questa realtà. Per me, invece, è fondamentale ribadire che la lotta alla violenza non può essere solo responsabilità della scuola o della famiglia. Serve una comunità attenta. Abbiamo perso quella rete di sostegno che una volta esisteva. Dobbiamo tornare a prenderci cura degli altri, a vigilare senza giudicare.
Possiamo quindi considerarlo un libro di denuncia?
Assolutamente sì. Ma anche un richiamo all’azione, a fare qualcosa in più. Un invito a non rassegnarsi al buio che ci circonda, ma a contribuire, ciascuno nel suo piccolo, a portare luce.
Cosa ti ha colpito di più della storia di Pasquale?
Il fatto che voglia smettere di essere considerato solo una vittima. Vuole tornare a vivere, non solo a sopravvivere. E questo per me è potentissimo. Ricordo mentre leggevo e ascoltavo le interviste nel periodo del MeToo che mi colpì quanto disse un’attrice: “Quando vado alle feste, mi guardano male perché ho denunciato una violenza. Non voglio essere portatrice di dolore a vita. Denuncio proprio per riprendermi la felicità che mi è stata negata.” Questo è ciò che ho ritrovato fortemente anche in Pasquale.
Come è nata l’idea del libro?
L’idea è nata da una profonda sintonia e dalla volontà di raccontare una storia che può fare la differenza.
Oltre al libro, continuate a portare avanti questo progetto di denuncia e di ascolto insieme?
Ora lavoriamo in parallelo: Pasquale con la sua associazione, io con il mio lavoro giornalistico. Ma abbiamo una relazione molto forte e continuiamo a collaborare, soprattutto nelle scuole, per fare educazione culturale e affettiva. Abbiamo preso strade diverse, ma con lo stesso obiettivo.