Delitto di Cogne, diciassette colpi per morire

A distanza di oltre vent'anni da quel 30 gennaio 2002, tante domande restano aperte per un omicidio che ha visto un'unica indiziata e poi condannata, Annamaria Franzoni, la madre

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 30 Gennaio 2021 12:25Aggiornato: 19 Gennaio 2023 11:35

Sono passati più di vent’anni da uno degli infanticidi più efferati e tristemente noti che colpì un piccolo paesino in Val D’Aosta, sconosciuto ai più fino a quella data. Era il 30 gennaio 2002 quando una donna alle 8:28 telefona al 118 implorando aiuto per il figlio, Samuele, di tre anni, che “vomita sangue”. Quella donna si chiama Annamaria Franzoni, e suo figlio verrà dichiarato morto alle 9:55 dello stesso giorno. L’autopsia stabilì come causa del decesso almeno diciassette colpi sferrati con un corpo contundente, sulla testa del bambino vennero rinvenute tracce di rame, che fecero pensare ad un mestolo, ma l’arma del delitto non verrà mai ritrovata.

Ripercorriamo insieme i fatti. Quella mattina la Franzoni accompagna l’atro figlio, Davide, alla fermata dell’autobus, sono le 8:15, rientra in casa alle 8:24 dove ha lasciato il piccolo Samuele, trovandolo ricoperto di sangue, chiama il 118, e contemporaneamente il medico di famiglia, la dottoressa Satragni, che arriva per prima, e sostiene che il bambino possa essere stato vittima di un’aneurisma, lo fascia, lo lava e lo porta in cortile improvvisando una barella d’emergenza, ma facendo questo comprometterà per sempre la scena del delitto.

Quaranta giorni dopo la signora Annamaria verrà iscritta nel registro degli indagati per l’omicidio del figlio, e il 14 marzo arrestata per omicidio volontario aggravato dai vincoli di parentela, venendo poi scarcerata il 30 marzo dal tribunale per carenza di indizi. Quello che accade dopo diventa di pubblico dominio perché, di comune accordo con il marito e la sua famiglia d’origine, cambierà l’avvocato, scegliendo il mediatico Taormina, che trasferirà il processo in un caso televisivo.

Fonte: ANSA
La casa dei Lorenzi a Montroz, frazione di Cogne (foto ANSA)

Tra interviste esclusive, colpi di scena, come la famosa impronta digitale attribuita al presunto assassino che poi invece si scoprirà appartenere a uno dei tecnici della difesa stessa, pianti e sorrisi appena accennati, gravidanze annunciate diretta, come se nulla fosse successo, questa massiccia esposizione mediatica della donna si trasformerà in un boomerang, diventando presto un’arma nelle mani dell’accusa. Come la domanda alla fine della prima intervista su Italia 1, quando dopo aver singhiozzato a ogni frase ricordando il figlio morto, a luce spenta della telecamera, si girò verso il giornalista con la faccia già asciutta chiedendo: «Ho pianto troppo?».

Impossibile da dimenticare perché a distanza di pochi secondi l’espressione dei suoi occhi e del suo viso era completamente cambiata, come fossero due persone diverse. L’epilogo processuale ci sarà il 21 maggio del 2008 quando la Cassazione conferma la sentenza d’appello e condanna la Franzoni a sedici anni per l’omicidio del figlio. Ne sconterà effettivamente sei in carcere, usufruendo anche durante questi di permessi speciali per stare con la famiglia e lavorare all’esterno. Dal settembre 2018 Annamaria Franzoni è una donna libera, i 16 anni di reclusione sono stati ridotti a meno di 11 grazie all’indulto e ai giorni di liberazione anticipata.

Ma a distanza di anni di questo caso si parla ancora perché al di là delle prove, il pigiama della donna ricoperto di sangue, come gli stessi zoccoli da lei indossati, la mancanza di un estraneo nella casa, fatto accertato dalla mancanza di impronte, la corrente divisa tra innocentisti e colpevolisti, è rimasta tale. Perché ogni elemento portato dall’accusa venne confutato dalla difesa, se la prima sosteneva che il pigiama fosse stato indossato dall’assassino e quindi dalla madre, la seconda sostenne che invece si trovasse sul piumone del letto dove il bambino fu colpito e per questo ricoperto dal sangue, così come per la posizione dell’omicida, in ginocchio ai bordi del letto per l’accusa, in piedi secondo la difesa, per avvalorare la mancanza di tracce ematiche su una parte del piumone. Le conclusioni a cui arrivano sono contrapposte, per l’accusa: “Annamaria Franzoni uccise il figlio prima di uscire di casa. Indossava il pantalone del pigiama, e agì stando inginocchiata sul letto. Questa posizione impedì che una parte del piumone si imbrattasse del sangue di Samuele”. Per la difesa: Annamaria Franzoni non uccise il figlio, il quale fu colpito mortalmente da una persona che si introdusse nella villetta della famiglia Lorenzi mentre la mamma era uscita di casa per accompagnare l’altro figlio alla fermata dello scuolabus.

Ma restano delle domande sospese, che non avranno mai risposta, perché l’unico dato certo di questa situazione è che, nonostante la sentenza di colpevolezza, gli anni scontati in carcere, la verità la conoscono solo l’assassino e il piccolo Samuele, che oggi avrebbe 22 anni, e che invece ne avrà per sempre tre. Io mi sono sempre chiesta come fa una mamma a uccidere il proprio figlio, togliersi il pigiama, vestirsi per accompagnare l’altro alla fermata dell’autobus, senza un minimo di cedimento, tornare a casa e inscenare la pantomima che tutti conosciamo? Com’è possibile che Davide, l’altro figlio, che a questo punto doveva essere presente in casa al momento del delitto, non si sia accorto di nulla? Non abbia sentito le urla straziate del fratello, che ha anche provato a difendersi? Un bambino di sette anni, non dimentichiamolo, che quindi sente e capisce quello che accade intorno a lui. Perché potendo sottoporsi a una perizia psichiatrica, diciamo favorevole, come sostenuto anche dall’avvocato Taormina, ha preferito accettare il processo, rischiando la galera, ma dichiarandosi sempre innocente? Com’è possibile che una donna mentre il figlio morente respira ancora chieda al marito di “aiutarla a fare un altro figlio”, che vedrà la luce esattamente un anno dopo dall’uccisione di Samuele?

Fonte: ANSA
I coniugi Lorenzi (foto ANSA)

E poi il dubbio lacerante che mi porto dietro da vent’anni, come fa un uomo, il padre del piccolo Samuele, che prima di essere il marito di una donna accusata di omicidio del sangue del proprio sangue, è un uomo a cui è stato strappato un figlio di tre anni, colpito alla testa diciassette volte, a rimanere con lei? Come fa quest’uomo a decidere di avere un altro figlio da questa donna, a renderla madre nuovamente, se avesse il sospetto che fosse l’assassina? E subito dopo mi domando come fa a non averlo avuto? Una donna che negli anni ha mostrato mille facce di se stessa, si è nascosta dietro una famiglia patriarcale che ha fatto scudo a lei,  la “bimba”, dimenticando chi fosse realmente l’unica vittima accertata di tutta questa situazione: un bambino che si chiamava Samuele, che è stato un figlio per soli tre anni della sua breve vita, un nipote e un fratello e che non sarà mai più nulla, perché è stato ucciso. Per diciassette lunghe volte.

E se l’assassino fosse ancora a piede libero?