Un anno di Covid, la guerra silenziosa

Quella che stiamo combattendo è una guerra silente, non sarà l'assedio di Sarajevo, in balia della fame e dei cecchini, ma si continua a morire

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Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 15 Marzo 2021 11:54

Lo scorso anno ero rimasta molto colpita da una dichiarazione rilasciata dalla dottoressa Francesca Cortellaro a Il Giornale, eravamo al nostro primo lockdown, in piena pandemia mondiale, e lei diceva questo:  «Sai qual è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t’implorano di salutare figli e nipotini». 15 marzo 2021, siamo al terzo lockdown, le prime ventiquattro ore di zona rossa in buona parte dell’Italia, sono passati 365 giorni, tra febbraio 2020 e il 31 dicembre 2020 sono stati registrati 75.891 decessi, e quelli non sono solo numeri, sono persone morte per Covid, il “per” è una preposizione semplice che indica il complemento di causa, sono uomini e donne che hanno visto interrompersi la loro vita per colpa del virus, sono nonni che avrebbero voluto godersi la pensione o anche solo vedere crescere i nipoti, sono genitori che avrebbero voluto accompagnare i figli all’altare, o avrebbero voluto innamorarsi ancora.

Ma sono morti in guerra. Già perché quella che stiamo combattendo è una battaglia silente, non sarà l’assedio di Sarajevo, e non potrà mai esserlo, visti i loro quattro anni in balia della fame e dei cecchini, ma il bollettino parla chiaro, ad oggi si continua a morire, ieri sono stati 264, e il giorno prima 317. In un fine settimana sono morte 581 persone, ognuna delle quali sarà stata la mamma o il papà di qualcuno, eppure ci abbiamo quasi fatto il callo, ogni giorno ci colleghiamo ai siti di informazione o ascoltiamo i TG per conoscere il tasso di positività, il bilancio tra nuovi positivi, ricoveri in terapia intensiva e il numero dei decessi, quasi non ci facciamo più caso, sembrano solo dei numeri in sovrimpressione, ed invece sono uomini e donne che hanno cessato la loro esistenza. Senza qualcuno a tenergli la mano. Nel freddo di un ospedale, magari intubati, i più fortunati incoscienti, senza quella fame d’aria che ti uccide l’anima, prima di toglierti la vita fisicamente.

Eppure c’è chi dopo un anno di morte mette in discussione la pandemia, rifiuta di vaccinarsi, pur facendo parte del personale sanitario, come è successo in Romagna, nella casa di riposo Violante Malatesta, dove un’operatrice, che aveva rifiutato di sottoporsi all’iniezione del farmaco, ha contagiato sei ospiti, fregandosene altamente della loro fragilità, secondo il vecchio adagio latino “mors tua, vita mea”. E non è l’unica, e non sarà nemmeno la sola, perché parallelamente all’esercito di persone che perde le ore per cercare di prenotare il vaccino per i propri genitori anziani, in base alla data di nascita, o come nel caso dei soggetti fragili, rimane in attesa di una chiamata dell’USSL di appartenenza, come il più bello di regali di Pasqua, esiste una massa che soffia sulla paura e sull’ignoranza, che fa leva sui propri timori per manipolare quelli degli altri, e così, mentre Israele ieri festeggiava l’inizio dell’uscita dal Covid, dopo aver vaccinato il 50% della popolazione, con ragazzi che ballano e si abbracciano mentre cantano in ristoranti e pub aperti, noi affrontiamo l’ennesima chiusura sperando che sia l’ultima.

Io non lo so cosa si provi quando si muore, so soltanto che io non vorrei morire da sola, non vorrei essere consapevole di quello che mi sta accadendo, senza potermi perdere un’ultima volta negli occhi di chi amo. Vorrei potermi addormentare tra le braccia di chi ha condiviso la vita con me, vorrei guardare quegli occhi e riassaporare il primo bacio, il primo appuntamento, vorrei ricordami il suo profumo per sempre, vorrei fosse l’ultimo odore da poter annusare, come la prima volta.

Vorrei che mi passassero davanti tutti i frame della nostra esistenza, la prima notte insieme, la convivenza, il matrimonio, i figli, e poi vorrei poter dire ti amo alla mia famiglia, un’ultima volta, vorrei morire ricordando la vita. Da quando ho letto le parole di Francesca Cortellaro, mi l’immagino questa dottoressa con il suo telefonino e la sua lista, le chiama le telefonate dell’addio, perché i pazienti in terapia intensiva colpiti da coronavirus rimangono lucidi, e chiedono solo una cosa: rivedere i visi di chi amano. E allora si fanno quelle chiamate, quelle dell’addio. Una di quelle che ricorda è quella di una nonnina che voleva salutare la nipote, non poteva pensare di andarsene senza rivederla un’ultima volta. E allora ripenso a quelli che dicevano che tanto muoiono i vecchi, poi dicevano che morivano sono quelli con patologie preesistenti, come se essere trapiantato o diabetico fosse una scelta, come se essere cardiopatico fosse una colpa. E mentre iniziava la quarantena, c’erano ancora quelli che si facevano l’aperitivo, loro davanti ad uno spritz a celebrare la loro vita, la dottoressa davanti ad un respiratore dando dignità alla morte, regalando gocce di umanità.  

Poi mentre sfornavo l’ennesima torta mi ha chiamato un mio amico, uno dei miei fratelli acquisti, uno di quelli che ha visto di me la parte peggiore e mi ha amato lo stesso. Poche parole. «Quando torni ti dobbiamo presentare l’ultima novità, abbiamo preso in affido un bambino di diciotto mesi. Abbiamo deciso tutto all’improvviso, ma siamo felicissimi». Non sono riuscita a trattenere le lacrime. Mi sono emozionata così tanto al pensiero di come la vita tolga e poi restituisca, ho pensato che no questo momento non può essere la fine, perché io quest’estate devo incontrare il mio nuovo nipotino, devo abbracciare di nuovo le mie sorelle e devo risentire l’odore dei miei genitori. Perché tutti noi ce lo meritiamo.

Ci meritiamo di tornare a vivere. Vaccinati, felici e liberi.