“Oggi molte scuole riapriranno. Sarebbe importante se i genitori, accanto alle mille raccomandazioni di studiare ed essere educati, si ricordassero di spronare i figli ad essere accoglienti, rispettosi ed inclusivi con i ragazzi con bisogni speciali, sottolineando che l’apparenza talora bizzarra e insolita nasconde più semplicemente un’immensa sensibilità e l’esigenza imprescindibile di essere accolti senza differenze. Affinché queste differenze diventino ‘normali’ e vengano apprezzate come reciproco arricchimento. I primi insegnamenti devono venire dalle famiglie, mentre spetta alla scuola arricchirne i contenuti. Non dimentichiamo che si tratta di ragazzi, con la stessa voglia di vivere, di ridere, di divertirsi, di avere amici accanto. Già, amici, che parola complessa quando si parla di disabilità. Ognuno di noi può fare, ognuno di noi deve fare. Senza remore, senza esenzioni. Senza pensare: ‘che lo facciano gli altri!’ Perché è da qui che si comincia per fare la differenza annullando le differenze.”
Queste frasi sono state scritte da Luisa Sordillo, mamma di Simone, diagnosticato autistico tardivamente, a sette anni, perché non seriamente compromesso, verbale, socievole, simpatico decisamente dolcissimo, eppure solo. Lui che di anni adesso ne ha venti. Ed ho pensato a quanta verità ci fosse in queste poche, semplici parole, a quanto arrivassero dritte al cuore, perché é proprio così, l‘inclusione deve nascere in famiglia, deve essere insegnata ai ragazzi, insieme ad una versione di latino ed un capitolo di storia, l’educazione ad essere grati alla vita, al saper apprezzare le differenze di ognuno di noi, perché sono proprio queste ultime che ci rendono unici ed irripetibili. E se è facile farlo e, forse, anche scontato, quando la diversità riguarda il modo di vestire o di porsi, molto più difficile diventa quando la diversità va a toccare le abilità, quando il diversamente abile diventa il compagno di scuola, il compagno di banco, o il compagno di squadra. Già perché é facile essere inclusivi, a parole, ma poi i fatti descrivono un’altra realtà. Ed è sempre Luisa a raccontarlo.
“Tutti dicono di amarlo, ma nessuno riesce a dimostrarlo seriamente. Non è mai stato invitato a feste di compleanno di compagni di scuola e le poche persone che mi hanno affiancato nel fargli compagnia sono state a pagamento. Una tristezza infinita. Finito il rapporto di lavoro non le ho viste più e dunque la paura dell’abbandono in mio figlio è forte. Abitiamo a San Severo (Fg). Ho cercato di inserirlo nello sport, ma puntualmente non veniva accettato nei giochi di gruppo, spudoratamente ed esclusivamente agonistici. Ho trovato un personal trainer in gamba che gli permette, in lezioni singole, di spendere una piccola parte della strabordante energia che è costretto a soffocare. Uno dei tratti autistici che più lo segna è l’incapacità di organizzare e gestire da solo il suo tempo libero, per cui o trascorre intere giornate al più ascoltando musica (che adora) o finisce per restare seduto al buio e immobile anche per ore. Chiaramente sono quasi sempre “costretta” a rinunciare alla mia libertà e ai miei interessi per dedicargli attenzioni e tempo, inventando attività e passatempi. Sarebbe bello ogni tanto sentire il suo cellulare squillare o il citofono suonare. Invece tutto tace, da anni. E lui si richiude sempre più in sé stesso, anche se si pensa che questa chiusura sia dell’autismo.”
Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
“C’è ancora tanto lavoro da fare sugli altri, perché per esempio quando si rivolgono a lui gli parlano come fosse sordomuto o particolarmente ritardato, scandendo bene le parole e urlando. Questo perché si fermano all’etichetta della disabilità, senza manifestare la curiosità di attraversarla per scoprire la persona che c’è dentro. A scuola la maggior parte dei disabili svolgono programmi differenziati (anche mio figlio) che non sono spendibili e non offrono possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Dunque vivo con ansia e direi meglio angoscia il prossimo anno quando Simone finirà la scuola (quest’anno frequenterà l’ultimo anno della ragioneria, avendo noi fatto per qualche anno homeschooling). Per non parlare del “dopo di me” (visto che sono praticamente l’unica ad occuparmi di lui a tempo pieno), in assenza di strutture e sbocchi per consentirgli il proseguimento di una vita autonoma e serena. È importante che arrivi il concetto che anche questi ragazzi hanno una vita sola che non può essere buttata al vento perché gli altri non hanno gli strumenti idonei ad integrarli nella società.”
Luisa è, anche, una mamma stremata, ma è anche una donna che non si è mai fermata davanti a nulla, ha scritto un libro per raccontare la loro storia, e per sensibilizzare le persone sul tema dell’autismo, che si chiama Voce di sale, e ci sono delle riflessioni al suo interno che colpiscono per la crudezza e per la verità che raccontano, Aurelia, la madre del racconto, verrà lasciata dal marito, che non riuscirà a fronteggiare la situazione arrivando alla conclusione che lei sarà in grado “di amare suo figlio per quello che è e non per quello che avrebbe voluto che fosse. Perché l’autismo e l’autistico sono due realtà differenti e, mentre il primo si odia, l’altro si può riuscire ad amare”, che detto da una madre colpisce ancora di più perché racconta la difficoltà di vivere e la lucidità di chiamare le cose con il loro nome.
Eppure nonostante questo lavoro di introspezione e di lucido racconto, Luisa ancora una volta si trova da sola a combattere il vuoto che sembra avvolgere suo figlio, perché a parole tutti capiscono, tutti sono buoni, ma la vita di tutti i giorni si va a scontare con una solitudine che non lascia scampo, ed è così che questa mamma ha deciso di far sentire la sua voce attraverso un post su Facebook scritto ieri, e diventato virale, capitatomi sotto gli occhi, e che noi tutti della redazione di DiLei abbiamo voluto condividere per cercare di dare un aiuto concreto a questa famiglia speciale.