La diagnosi precoce, in medicina, rappresenta un fattore importante nella gestione di una patologia. A patto ovviamente che esistano poi le opportunità di cura per intervenire quanto prima è possibile, con un impatto sulla patologia che si scopre. E per arrivare alla diagnosi precoce bisogna innanzitutto capire che è a rischio. In questo senso, definire gli elementi che possono risultare d’aiuto appare basilare.
A queste semplici regole non sfugge la malattia di Alzheimer. Nuovi studi sui fattori di rischio della malattia di Alzheimer propongono infatti nuovi scenari per effettuare una diagnosi precoce, scoprendo a chi prestare maggior attenzione. Sono stati infatti identificati alcuni fattori di rischio come diabete, resistenza all’insulina, malattie del fegato, disturbi del sonno, che molto probabilmente concorrono a determinare questa patologia. A dirlo sono gli studi presentati al Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – AIP.
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Le novità della prevenzione
Negli ultimi tempi la ricerca scientifica si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già quasi vent’anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide, quella che si deposita, a cui segue l’alterazione della proteina tau.
Oltre alle normali regole di prevenzione, valide un po’ per tutto, esisterebbero alcuni possibili fattori di rischio che precedono l’accumulo di beta-amiloide. E su questi si concentra l’attenzione degli esperti. “I fattori di rischio che stanno emergendo come correlati alle caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulino-resistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea Alessandro Padovani, dicente di neurologia all’Università di Brescia.
Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un’ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando.
Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer”.
In cerca di biomarcatori e le difficoltà nelle cure
“Le recenti ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer identificano importanti segni che un individuo andrà incontro a una demenza – sottolinea Diego De Leo, Presidente AIP. Si tratta di una puntura lombare che preleva il liquor cefalo-rachidiano che circonda il sistema nervoso. Nuove modalità di analisi dei biomarcatori si possono oggi fare anche tramite analisi del sangue, con un accesso più semplice e generalizzato, intervenendo quindi anche in persone che non presentano segni di malattia. Tuttavia, questa disponibilità pone questioni etiche oltre che organizzative, per identificare le persone da sottoporre a questi test”.
Insomma, la scienza prova ad arrivare presto. L’importanza della prevenzione e dell’identificazione dei fattori di rischio è data dalla mancanza di terapie risolutive della patologia. Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata su anticorpi monoclonali che agiscono contro i primi meccanismi patogenetici dei precursori dell’amiloide, ma gli studi sono ancora in corso e mancano valutazioni da parte delle autorità regolatorie. Attualmente quindi la strategia terapeutica più frequente resta quindi quella di un cocktail di farmaci. Ma si lavora soprattutto in prospettiva.
“Tra le potenziali novità, vi è una terapia che prevede l’uso di oligonucleotidi antisenso – sottolinea Padovani. È una terapia che in Italia è condotta in sei centri, tra cui il nostro a Brescia. Finora non sono emersi effetti collaterali e attendiamo di verificare l’effetto a distanza di un anno, ma i dati sono incoraggianti: potrebbe essere una nuova strada che combina farmaci antiamiloide e antitau”.
Il tutto, per un futuro che si presenta complesso anche in termini di impatto sociale della patologia. L’Alzheimer rappresenta numericamente la principale forma di demenza tra le malattie neurodegenerative in tutto il mondo. In Italia ci sono 1,1-1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80% affetti da Alzheimer, quindi si stimano circa 800mila persone.