Rita Atria, 17 anni, vittima della mafia

Aveva solo 17 anni, Rita Atria, ma preferì morire: si fidava solo di Paolo Borsellino, ma lui fu ucciso dalla mafia. E lei, sola contro tutti, non trovò speranze

Pubblicato: 27 Luglio 2022 10:01

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Redazione

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Cosa ci diresti tu, Rita Atria, se oggi potessi parlarci? Cosa insegneresti a queste generazioni sempre più strane, più viziate, più coccolate, tu, che hai davvero rinunciato a tutto pur di far trionfare la verità? Forse, quando ti pensiamo, dovremmo chiedercelo. E forse per chi non la conosce o per chi l’ha solo sentita nominare, ogni tanto, in un documentario sulla lotta alla mafia o l’altro, è il caso di ripassarla, la tua storia.

Chi era Rita Atria? Rita era una ragazza di soli 17 anni. Poco più di un’adolescente, non più bambina ma ancora neanche pienamente una donna adulta. Ma era sveglia, Rita. Sapeva distinguere il bene dal male. E sapeva che la mafia non era ciò che la sua famiglia e la Sicilia le raccontava: non erano i buoni, non erano quelli che “provvedevano” e “proteggevano”. Erano spietati, i mafiosi. E lei non volle più stare zitta.

La vita di Rita Atria e ciò che la cambiò

Sì, perché Rita c’è cresciuta, in mezzo alla mafia. Era un fiore bianchissimo in un campo arido: figlia di Vito Atria, per lungo tempo fu in qualche modo convinta che il padre operasse davvero il bene. D’altronde lui, mafioso all’antica, non faceva altro che aiutare i pastori di Partanna, paese in provincia di Trapani, a ritrovare le pecore che ogni tanto scomparivano. Rita aveva un bel rapporto con il padre, mentre con la madre, Giovanna Cannova, non riusciva proprio ad andare d’accordo.

La madre non la amava: forse perché, in realtà, Rita non era stata frutto d’amore ma di violenza. Ciò, però, lei non poteva saperlo. Perché per capire chi era davvero il padre dovette arrivare all’età di 11 anni, nel 1985. Questo fu l’anno in cui Vito Atria fu ucciso e che cambiò completamente l’esistenza di Rita, perché il fratello, Nicola, decise prima di rintracciare i killer per vendicarsi e poi iniziò a collaborare con loro.

Mentre la madre continuava a guardarla con sospetto e diffidenza, Nicola vedeva in lei una confidente. Le spiegò che il padre, in realtà, non aiutava i pastori. Al contrario, rubava loro le pecore per poi ricattarli e chiedere il pizzo. Le disse che lo avevano ammazzato perché si era opposto all’entrata della droga a Partanna. E le confessò che, in realtà, stava iniziando a collaborare perché un giorno avrebbero ottenuto ciò che meritavano.

Rita, la cognata Piera Aiello e la lotta alla mafia

E infatti Nicola ci prova, poi, a “prendere” i killer del padre. Corre l’anno 1991 e Rita ha un rapporto privilegiato con il fratello, perché oltre a lui non ha nessuno. La madre continua a tenerla distante e a maltrattarla, come se fosse la causa dei loro mali. Non vede neanche di buon occhio il sodalizio tra fratelli e non apprezza neanche il fatto che la moglie di Nicola, Piera Aiello, cercasse in qualche modo di starle vicina.

Piera era infatti una ribelle: fu obbligata a sposare Nicola e ci aveva anche provato a sciogliere il fidanzamento, per ottenere in cambio minacce. Piera e Rita, vicine e allo stesso tempo distanti, erano unite da un destino fatto di incredulità e di lontananza dallo Stato. Una lontananza che si riduce drasticamente, appunto, nel 1991. Perché Nicola sbaglia l’agguato ai killer del padre e viene ucciso nella sua pizzeria.

Piera, allora, si allontana dalla famiglia Atria. E commette quello che è il gesto più imperdonabile per una famiglia di mafiosi: diventa testimone di giustizia. D’altronde lei ha visto con i suoi occhi l’omicidio del marito e vuole parlare, ha bisogno di urlare. Inizia le sue confessioni, denuncia i due assassini e parla, parla con la Polizia senza fermarsi, per poi essere trasferita a Roma, sotto protezione. Rita la osserva. Valuta, soppesa. Guarda la madre che sputa su quella cognata, guarda la terra che brucia attorno a lei. E decide: anche lei collaborerà con la giustizia.

Rita Atria, testimone di giustizia e vittima di mafia

Rita prende una corriera, la mattina del 5 novembre 1991. Segretamente, senza che la madre lo sospetti, si reca a Marsala. Era lì che la cognata aveva iniziato a collaborare ed è lì che si trova un procuratore bravo, uno di quelli di cui si sente già parlare: Paolo Borsellino. Con i suoi baffi, con quel sorriso mite e buono, con quello sguardo tanto indagatore quanto profondo, Borsellino conquista la fiducia di Rita, che inizia a vederlo come un padre.

Parla, Rita. Parla senza sosta. E Paolo Borsellino la ascolta, la rassicura. Capisce il desiderio di giustizia della ragazza, privata delle uniche due figure che le davano amore, e la accompagna come una guida in un percorso che la porta lontano da tutti e da tutto. Le testimonianze della Atria, insieme a quelle di Piera Aiello, portano a moltissimi arresti tra Partanna e Marsala. E la mafia le dichiara guerra, così come la madre, che la disconosce, la ripudia e afferma a gran voce di preferire «una figlia morta a una figlia infame».

E, purtroppo, una figlia morta è ciò che Giovanna Cannova ha ottenuto. Sì, perché quando il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino muore, Rita non vede più alcuna speranza. Passa pochissimo tempo e in un momento di profondo sconforto, il 26 luglio dello stesso anno, mentre si trovava a Roma sotto protezione, ormai lontana da ogni tipo di affetto, scrive: «Borsellino sei morto in ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta» e si suicida, gettandosi dal sesto piano.

Il gesto di Rita è stato estremo ed è stata proprio la profonda solitudine che la mafia le ha imposto a ucciderla. Una solitudine derivata da un contesto disastroso, allarmante: la madre ha continuato a odiarla per tutta la vita, arrivando persino a distruggere la sua tomba al Cimitero Comunale di Partanna, prendendola a martellate. Ma nonostante questo, il messaggio di Rita non è mai morto.

E ancora, a gran voce, chi lotta il crimine organizzato lo ripete, citandola: «Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza. Poi, dopo averla sconfitta dentro di te, puoi combatterla nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi. Siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci: andate dai ragazzi che vivono all’interno della mafia e dite loro che fuori esiste un altro mondo».

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