Federico Stefanelli, coach della Ferragni: “Aiuto le persone a comunicare meglio”

Federico Stefanelli, il coach di public speaking di Chiara Ferragni (e non solo), ci racconta del suo lavoro e ci svela i trucchi per parlare in pubblico

Pubblicato: 3 Novembre 2023 16:50

Federica Cislaghi

Royal e Lifestyle Specialist

Dopo il dottorato in filosofia, decide di fare della scrittura una professione. Si specializza così nel raccontare la cronaca rosa, i vizi e le virtù dei Reali, i segreti del mondo dello spettacolo e della televisione.

Viene dal teatro e dal mondo dello spettacolo Federico Stefanelli che di professione è coach di public speaking e insegna alla Accademia Belle Arti di Santa Giulia di Brescia. Chiara Ferragni lo ha voluto per prepararsi al ruolo di co-conduttrice al Festival di Sanremo 2023. E grazie al lavoro che ha fatto con lui, ha pronunciato il suo monologo emozionando l’Italia intera. Lei ha riconosciuto la grande importanza che Stefanelli ha avuto nella sua preparazione, per questo ha voluto che comparisse nella seconda stagione della serie The Ferragnez, rendendolo famoso in tutto il Paese.

Ma la professionalità di Federico Stefanelli precede la sua fama e sono in molti a ricorrere al suo aiuto quando si tratta di pronunciare discorsi in pubblico. A noi ha raccontato come lavora, dandoci alcuni fondamentali consigli per catturare l’attenzione di chi ci ascolta senza annoiarlo mai.

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Di professione sei coach di public speaking, ci spieghi esattamente in cosa consiste?
Io aiuto le persone a comunicare meglio con gli altri, cioè lavoro su presentazioni, speech, appuntamenti, grandi e piccoli interventi che le persone devono fare per aiutarle a mettere le loro idee in una pratica comunicativa semplice, per farsi capire dagli altri. Quindi lavoro per trovare lo stile giusto, aiutando a comunicare meglio quello che vogliono raccontare. Questo è il mio lavoro. Non si tratta di un lavoro autoriale, ma riguarda la struttura, ossia cerco di dare la giusta forma, di mettere in pratica le idee degli altri. Per questo lavoro sulla ricerca delle intonazioni, mi concentro sulle intenzioni, sul modo di fare le pause: cerco di rendere più chiaro quello che le persone dicono perché vengano capite meglio.

Ci sono delle regole generali da seguire per parlare in pubblico oppure valuti caso per caso?
Ci sono delle regole generali che potremmo definire basi che sono il rispetto delle parole, delle pause, ma ognuno deve cercare il proprio stile e quindi intervengo io in aiuto. Infatti, se per esempio cercassimo di imitare Alberto Angela, che è bravissimo a raccontare le cose, saremmo solo delle sue bruttissime copie. Per questo è importante lavorare sul proprio stile che può essere più ironico, o serioso o emotivo. Ognuno deve trovare il suo stile comunicativo e il mio compito è anche di indirizzare e far capire qual è la modalità giusta per ciascuno.

Intervieni anche sui contenuti dei discorsi?
Alcune volte sì, se me lo chiede il cliente, aiutandolo nella formulazione dei contenuti. Ma la maggior parte delle volte il contenuto è del cliente e io cerco di fare un labor limae, come quello dei poeti, per renderlo più fruibile a seconda del pubblico che lo deve ricevere.

Come prepari la persona a tenere il suo discorso? Generalmente quanti incontri ci vogliono?
Tendenzialmente sono poco propenso alle regole standard. Di solito con il cliente studiamo insieme un percorso. Il primo intervento è quello di valutazione, un po’ come dal dottore quando deve una anamnesi. Una volta capito qual è il problema e trovati i sintomi, programmo tre o quattro incontri, ma anche cinque o sei. Dipende da quali sono gli obiettivi, anche perché la comunicazione non è qualche cosa di cristallizzato, cambia in continuazione e anche noi dobbiamo adeguare il nostro modo di comunicare. Ad esempio, io dico sempre i politici di adesso non sono diversi a livello culturale da quelli che c’erano prima, ma il modo di parlare dei politici di un tempo non è più efficace sugli ascoltatori di oggi, perché i loro discorsi appaiono troppo lunghi e noiosi.

Un errore che proprio non dobbiamo mai commettere quando teniamo un discorso in pubblico?
Leggere, perché è tremendamente noioso. Non importa quanto bene sia stato scritto quell’intervento, se lo si legge si perde inevitabilmente tutta l’espressività che è l’elemento coinvolgente. Quando pronunciamo un discorso, pensiamo di passare concetti – e a volte lo facciamo -, ma la maggior parte delle volte passiamo le emozioni. Non sempre ci si ricorda le esatte parole, ma indubbiamente ci si ricorda le emozioni che quel discorso ti ha fatto vivere. Io dico sempre: ‘Strappate quei benedetti fogli’, ma nemmeno ci si deve limitare a imparare a memoria quello che si è scritto, altrimenti sembra la recita di una poesia e tutto diventa piatto. Bisogna invece cercare di far proprio il discorso per poi raccontarlo agli altri.

Hai parlato di emozioni, però l’emotività in pubblico può giocare brutti scherzi. Come si fa a tenerla sotto controllo?
Innanzitutto facendo un lavoro di consapevolezza di sé e cercando di essere gentili con noi stessi. Noi siamo tremendi con noi stessi. L’emotività a volte ci viene perché ci imponiamo delle aspettative che gli altri non hanno nei nostri confronti. Vogliamo essere sempre perfetti, eccezionali, non ci accontentiamo mai e così non facciamo altro che aumentare o creare l’ansia da prestazione. A volte invece conoscendo le nostre mancanze, riusciamo a comunicare meglio, perché rendono il discorso veritiero. Spesso consigliano di parlare in un italiano perfetto, ma non sempre vale questa regola. Se c’è un’influenza dialettale, certo non va calcata, ma nemmeno va tolta del tutto, altrimenti si diventa finti. Benigni ci ha spiegato la Bibbia e l’ha fatto in toscano, ma la Bibbia non è scritta in toscano. Eppure l’apprezziamo tantissimo. Dobbiamo credere in quello che raccontiamo. Se ci crediamo, gli altri ci seguiranno. Se noi non ci crediamo, gli altri ascolteranno qualcosa che non li coinvolgerà e finiamo per essere poco interessanti.

A parte Benigni c’è qualche retore contemporaneo che ti piace?
Un altro che ha delle inflessioni dialettali e che ha anche suono della voce molto particolare, è Alessandro Barbero. Riesce ad essere il Maneskin della storia, è ascoltato da tutti, giovani e meno giovani. Perché? Perché quell’emozione che ci mette dentro, va oltre il contenuto. Si ascolta Barbero non perché ti racconta le guerre puniche in maniera diversa rispetto al finale, ma le racconta con un’emotività e con un trasporto che ti incantano, ti fanno immedesimare in quello che dice.

Anche la semplicità aiuta?
Certo, l’essere capibili. Spesso siamo convinti che per certi argomenti dobbiamo utilizzare un registro linguistico che dimostri quanto sia esperto in quel campo. Ma non è così. Devo prima pensare se il pubblico riesce a capirmi, se parlo in quel determinato modo. Devo immedesimarmi in chi mi ascolta, perché così sarò più efficace. E questo è il secondo step che una persona deve fare, quando vuole parlare in pubblico. Chi parla a se stesso, non ha mai grosse possibilità di essere ascoltato.

C’è anche un terzo step?
È quello del debriefing. Ogni volta che si fa un discorso, è importante pensare poi a come è andata. A quello che va migliorato e soprattutto a quello che è andato bene. Questa analisi non la facciamo mai, ma è importantissima. E poi ricordiamoci che non ci sono mai sbagli, ma solo aree di miglioramento.

Per fare il coach di public speaking, bisogna intraprendere un percorso di studi particolare?
Sì e no. Ci sono delle facoltà universitarie che preparano a questo ruolo. Io però ho fatto un percorso diverso, perché vengo dal mondo del teatro, del cinema e della televisione. Quindi ho portato quelle che sono le caratteristiche di un attore sul piano della comunicazione. Si possono fare quindi percorsi diversi per fare questo lavoro. Quello che conta è indubbiamente saper ascoltare la realtà che ci circonda e prestare attenzione a come le persone parlano. E poi naturalmente leggere tantissimi testi e di tipologie diverse e restare sempre aggiornati. La comunicazione cambia continuamente e la tendenza oggi è quella per cui la parola tende a scomparire a favore dell’immagine.

Quanto è importante la gestualità della comunicazione?
Per me è assolutamente fondamentale. Noi italiani siamo considerati ‘quelli che gesticolano tanto’, quasi in tono dispregiativo. Però per me i gesti sono importantissimi, perché rafforzano quello che si sta dicendo. Poi come sempre non bisogna esagerare. La gestualità fine a se stessa, dà fastidio e può rovinare il discorso. Invece quando il gesto va ribadire le parole, queste diventano ancora più forti. Soprattutto in un periodo storico in cui il vocabolario si sta restringendo.

Oltre Chiara Ferragni, hai avuto modo di lavorare con tanti vip?
Sì diversi. Chiara è stata molto carina perché è stata una delle poche che ha deciso di far vedere il percorso che ha fatto con me. Anche se non c’era bisogno di farlo. Molti altri invece non vogliono che si sappia. Quindi aspettiamo la fine del percorso e qualcuno lo dice e qualcuno no. Io lavoro spesso con personaggi della tv, con politici, e loro non voglio assolutamente dirlo.

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