Giornata mondiale del diabete, cosa cambia per il tipo 1 con lo screening e le terapie in arrivo

Il 14 novembre si celebra la Giornata mondiale del diabete: focus sul tipo 1, malattia legata a un meccanismo autoimmune che compare fin dall'infanzia

Pubblicato: 14 Novembre 2024 09:20

Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

I monumenti si sono tinti di blu per la Giornata Mondiale del diabete. L’obiettivo è accendere l’attenzione su una patologia che interessa una persona su dieci nel mondo, circa 62 milioni in Europa, e che sembra destinata a crescere ulteriormente.

Celebrata ogni anno il 14 novembre a partire dal 1991, quando è stata istituita dalla Federazione Internazionale del Diabete (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la WDD nel 2006 è diventata una Giornata ufficiale delle Nazioni Unite.

“Diabete e benessere” è il tema dell’edizione di quest’anno. Esistono diverse forme di diabete. Da quello di tipo 2, più diffuso e che interessa soprattutto gli adulti, fino a quello gestazionale. E poi c’è il diabete di tipo 1. In questo caso la malattia, legata ad un meccanismo autoimmune, compare fin dall’infanzia.

Oggi si può puntare anche sulla diagnosi precoce della patologia grazie allo screening. E si avvicinano farmaci in grado di ritardare l’insorgenza del quadro patologico vero e proprio per una popolazione in crescita. In tutto il mondo sono 8,4 milioni le persone con diabete di tipo 1, con mezzo milione di nuovi casi diagnosticati in età infantile. Uno scenario allarmante che riguarda anche l’Italia, dove si stima che siano presenti oltre 20.000 bambini con diabete di tipo 1.

Perché è importante la diagnosi precoce

La diagnosi precoce del diabete di tipo 1 riduce del 94% il rischio di gravi complicanze e, grazie allo screening, è prevedibile che ogni anno oltre 450 bambini eviteranno la chetoacidosi, la più pericolosa conseguenza, a volte fatale, della malattia.

Lo segnalano gli esperti della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), che hanno messo a confronto i risultati ottenuti da due studi pubblicati sulla rivista Diabetologia, condotti sulla popolazione pediatrica, con e senza screening del diabete.

Il primo studio, guidato da Valentino Cherubini, presidente SIEDP, referente per il Ministero della Salute e per l’Istituto Superiore di Sanità per lo screening pediatrico del diabete di tipo 1, ha valutato la frequenza di chetoacidosi nei bambini in cui la malattia viene scoperta alla comparsa della complicanza. Il secondo, condotto da ricercatori tedeschi nell’ambito del progetto Fr1da per la diagnosi precoce, ha analizzato, invece, la frequenza di chetoacidosi in bambini sottoposti a screening.

Perché occorre controllare la chetoacidosi

“Questa grave complicanza si sviluppa quando l’organismo non riesce a produrre abbastanza insulina e inizia a scomporre i grassi per alimentare i processi metabolici, con un accumulo di acidi nel sangue, chiamati appunto chetoni, provocando, nei bambini colpiti, alterazioni neurologiche che, nelle forme più gravi, possono arrivare a metterne in pericolo la vita – spiega Cherubini, tra i maggiori esperti al mondo, da sempre in prima linea per promuovere la diagnosi precoce e la prevenzione della chetoacidosi.

Dallo studio che abbiamo condotto su 59mila bambini in 13 Paesi su 3 continenti, tra il 2006 e il 2016, è emerso che, in Italia, dove la scoperta della malattia avviene spesso con la comparsa dei sintomi, la frequenza di chetoacidosi arriva al 41,2% nei bimbi più piccoli, con un secondo picco intorno ai 10-12 anni”. Confrontando i risultati con quelli ottenuti dal progetto tedesco di screening Fr1da, nei bimbi risultati positivi al test, è emersa un’incidenza molto più bassa di chetoacidosi, pari al 2,5%, con una riduzione del 94% del rischio rispetto al nostro studio.

“Dati che confermano – sottolinea l’esperto – l’essenziale e straordinaria importanza della legge 130/2023, approvata poco più di un anno fa, che ha istituito in Italia – primo Paese al mondo – un programma nazionale di screening pediatrico, proprio con l’obiettivo principale di prevenire la chetoacidosi”.

Lo screening per cogliere chi rischia

Dall’approvazione della legge, un progetto pilota in 4 regioni, ne ha confermato la fattibilità ed entro il prossimo anno sarà possibile estenderlo su scala nazionale.

“Il progetto, partito a marzo 2024, ha finora coinvolto 3600 bimbi e quelli risultati positivi, sulla base dei dati più aggiornati, sono stati lo 0,23% – fa sapere Cherubini. Considerato che lo screening sarà effettuato in bimbi tra i 2 e i 3 anni e ripetuto tra i 5 e i 7 anni di età, se tutti effettueranno i test, si prevede che 1113 bimbi saranno positivi a due o più anticorpi, con rischio certo di sviluppare la malattia. E grazie alla riduzione al 2,5% della comparsa di chetoacidosi, resa possibile con l’introduzione dei test pediatrici in tutto il Paese, oltre 450 bimbi ogni anno potranno evitare la terribile complicanza”.

Un farmaco per ritardare l’esordio della malattia

Teplizumab, approvato negli Stati Uniti dalla FDA nel novembre 2022, primo farmaco al mondo capace di ritardare l’esordio clinico del diabete di tipo 1, è ora disponibile in Italia per uso compassionevole a partire dai bimbi di età pari o superiore a 8 anni con diabete di tipo 1 di stadio 2, positivi a due o più autoanticorpi caratteristici della malattia e con condizione di disglicemia. L’utilizzo per uso compassionevole sarà consentito anche nei centri di diabetologia pediatrica che ne faranno richiesta.

“Si tratta di un anticorpo monoclonale che si somministra per via endovenosa e che permette di ritardare l’insorgenza del diabete di tipo 1 in chi manifesta i primi segni di questa patologia consentendo ai pazienti di vivere mesi o anni senza il peso della malattia – spiega il presidente SIEDP.

Il farmaco prevede la somministrazione una volta al giorno per due settimane ed è capace di rallentare la progressione della malattia legandosi a specifiche cellule del sistema immunitario che, normalmente, agiscono nella difesa dell’organismo contro molti patogeni, ma che nelle persone con diabete di tipo 1 sono tra le responsabili della risposta autoimmune errata che contraddistingue la patologia.

Come emerso da uno studio su 76 pazienti con diabete di tipo 1 in stadio preclinico, dopo circa 51 mesi dalla somministrazione del farmaco, il 45% dei 44 pazienti che hanno ricevuto l’anticorpo monoclonale è stato diagnosticato con diabete di tipo 1, rispetto al 72% dei 32 pazienti che hanno ricevuto un placebo, con un ritardo significativo nell’esordio della malattia”.

Più attenzione alla qualità di vita per chi ha il diabete di tipo 1

La qualità di vita per chi affronta la malattia sta crescendo sempre di più, grazie alla tecnologia e a strumenti che controllano costantemente la glicemia e aiutano ad offrire le giuste dosi di insulina, l’ormone mancante.

Questi strumenti stanno facendo la rivoluzione soprattutto nel diabete di tipo 1, pur se possono essere impiegati anche in alcuni pazienti con diabete di tipo 2. L’automonitoraggio della glicemia e le penne per iniezioni di insulina vengono progressivamente sostituiti da tecnologie più avanzate, come il monitoraggio glicemico continuo che forniscono dati in tempo reale per aiutare i diabetici a evitare livelli glicemici troppo bassi o troppo alti oltre ad informare i medici per indirizzare il trattamento.

Inoltre oggi le pompe per insulina offrono anche la possibilità di regolare l’infusione di insulina basale e, tramite dei calcolatori che utilizzano il rapporto insulina/carboidrati e i fattori di correzione a seconda del momento della giornata e dello specifico paziente, permettono il calcolo dei boli insulinici più finemente calibrati in funzione delle variabili, rispetto a quanto consentito dalle iniezioni.

Strumenti più aggiornati combinano le due strategie, per rendere automatico il calcolo del dosaggio e la sua somministrazione. Sono i sistemi ibridi ad ansa chiusa, ibridi perché automaticamente mantengono la glicemia stabile al di fuori dei pasti, ma necessitano dell’intervento del paziente per la somministrazione del bolo prandiale. Fondamentale è però ricordare che, se è vero che la tecnologia può essere d’aiuto per tutti, occorre che il paziente sia partecipe e scelga con il team dei curanti l’impiego degli strumenti. Insomma questi sviluppi vanno inseriti sempre in un percorso di risposta ai bisogni in termini di qualità di vita della persona con diabete, bisogni di salute fisica, personale e sociale.

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