I processi si fanno in aula. Non in strada, non sui social, né tanto meno sui media. Si fanno per accusare e per difendere, per chiedere giustizia nei confronti di chi ha subito un torto o un crimine. Come ha fatto Silvia, che in tribunale ci è stata dopo aver denunciato un gruppo di amici per violenza sessuale nel 2019.
Eppure Silvia, da vittima, ha subito un doppio processo. Prima quello mediatico e poi quello in aula, sottoponendosi a ben 1400 domande, alcune delle quali molto intime.
“Quali atti di resistenza ha posto?”, “Ha urlato?”. E poi, ancora “Come hanno fatto a toglierle le mutande?”, “Che tipo di slip indossava?”. Queste sono solo alcune delle domande, riportate da La Stampa, che gli avvocati difensori di Ciro Grillo e dei suoi amici hanno posto alla ragazza. Quesiti tutti volti a scardinare la tesi di violenza sessuale a favore di un rapporto consensuale.
Senza mettere in dubbio l’operato della difesa, che ricordiamo è un diritto per tutti, viene da interrogarsi sul perché, ancora una volta, la donna viene additata, o quasi, come colpevole, anche quando si dichiara vittima. Anche quando lo è davvero, come la storia ci insegna.
1400 domande per Silvia: “il processo” alla vittima
Il 31 gennaio del 2024 si è conclusa l’udienza a porte chiuse del caso di violenza sessuale denunciato nel 2019 da parte di una studentessa italo-norvegese. Cosa è successo, forse, lo ricorderemo tutti perché quel racconto dell’orrore altro non sembra che la copia di moltissimi altri casi di cronaca che si sono susseguiti negli ultimi tempi.
Silvia è stata stuprata, violentata da Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria nella notte tra il 16 e il 17 luglio in Costa Smeralda, Sardegna. O almeno è questo che sostiene la ragazza nella sua versione che gli avvocati difensori tentano di scardinare sostenendo che, tra le parti in causa, ci sia stato un rapporto consensuale.
Quella notte, dopo essersi conosciuti in un locale sull’isola, Silvia ha raggiunto la casa di uno dei ragazzi insieme alla sua amica Roberta e dopo aver bevuto diversi drink è stata violentata dal branco. Ma non è quello che sostiene il gruppo che, invece, narra di un rapporto consenziente.
Cosa è successo davvero, quella notte di luglio, sarà l’esito del processo a stabilirlo. Quello che sappiamo è che a conclusione delle udienze, durante le quali la studentessa ha dovuto raccontare e ripercorrere la violenza subita, la ragazza si è detta molto provata delle domande alle quali è stata sottoposta.
“Mi sento come una sopravvissuta”. Queste le parole di Silvia – riportate da Il Corriere della Sera – una volta fuori dal tribunale. A farle da eco sono stati i suoi avvocati che hanno parlato di un interrogatorio intenso, e quasi brutale, portato in aula per dimostrare che esistono delle incongruenze rispetto sua versione dei fatti.
1400 domande che, riportate da La Stampa si sono diffuse rapidamente sui social, creando polemica e spaccando l’opinione pubblica per la natura intima e violenta.
Vittimizzazione secondaria
Nel 1988, il giorno di Pasquetta, Pina Siracusa veniva stuprata da 15 ragazzi a Mazzarino, Caltanissetta. Non senza titubanze, la ragazza di 21 anni decise di denunciare i suoi aggressori dopo alcuni giorni. Quando la notizia si diffuse, però, Pina non fu trattata come una vittima da proteggere, ma la carnefice. Una donna adulta e consenziente che aveva accusato in giustamente dei ragazzi provenienti da famiglie rispettabili.
La storia di Pina è diversa da quella di Silvia, che ancora non ha un colpevole per la legge, e da tutte quelle di ragazze vittime di violenza. Cambiano gli anni e le città, i nomi e gli epiloghi, le situazioni e le modalità. Eppure sembra esserci un fattore dominante e ricorrente, quello di colpevolizzare la vittima. A volte le accuse vengono dall’opinione pubblica, altre volte dai carnefici stessi o dai loro familiari. Fatto sta che le donne si ritrovano sempre a dover giustificare qualcosa, il loro essere donne appunto.
Perché è facile dare la colpa a una donna. Lo è perché siamo provocatrici e “Poco di buono”, perché ci vestiamo in maniera succinta, perché non siamo chiare, perché non abbiamo urlato abbastanza. Perché ce la siamo cercata.
Non sappiamo ancora qual è la verità nel caso di Silvia, ma quelle 1.400 domande che la ragazza ha dovuto subire, e che violano in maniera importante l’intimità e l’integrità di un essere umano, non possono lasciarci indifferenti. Non possono non farci pensare a quanto, ancora una volta, le donne siano costrette a subire quella che viene definita vittimizzazione secondaria. Il risultato di un pregiudizio ingombrante, e ormai insostenibile, che affonda le radici in tempi lontani. Un’eredità lasciata dal retaggio culturale e patriarcale che non possiamo più sopportare.
Quando la colpa è della vittima
Era il 1971 quando, per la prima volta, si parlò di victim blaming. A coniare il termine fu lo psicologo statunitense William Ryan, nel suo libro omonimo, per indicare tutti i casi in cui la vittima veniva appunto colpevolizzata. Sono passati anni, eppure questo tema sembra più attuale che mai, soprattutto se guardiamo ai più recenti e drammatici casi di cronaca.
Il victim blaming ci porta ad analizzare quella che sembra una conseguenza inevitabile di questo comportamento: la vittimizzazione secondaria. Con questo termine ci si riferisce a tutti quei casi in cui una persona che ha subito una violenza è in qualche modo costretta a vivere una seconda violenza perpetuata da altri individui.
Pina Siracusa, per esempio, è stata accusata dalle famiglie degli stupratori, e poi dal suo paese, di aver peccato di ingenuità. E basta guardare i recenti casi di cronaca per scoprire che non è certo l’unica. Quelli che parlano di donne che hanno paura di denunciare, perché poi sanno che le loro parole possono essere messe in dubbio dai media, dai social, dalle istituzioni, dagli avvocati, da chi non crede e non ascolta.
Perché sì, la vittimizzazione secondaria fa paura perché è reale. Perché frasi come “Se l’è cercata” o “Aveva degli abiti troppo provocanti”, non possono giustificare un atto così cruento come quello della violenza sessuale. E invece accade, quasi sempre, che i commenti a queste vicende si sprecano. Che le donne diventano il capro espiatorio perfetto per giustificare “Quei bravi ragazzi“.
Così l’attenzione si sposta, dal carnefice alla vittima, che subisce una doppia violenza. Quella che si attacca ancora più profondamente addosso e che provoca una sfiducia generale, non solo nelle istituzioni ma anche nella società più in generale.
Le ragioni, purtroppo, le conosciamo tutti. Sono appese a quel filo invisibile che lega le donne ai pregiudizi e agli stereotipi di genere che vengono perpetuati, a volte, anche in maniera inconsapevole. Eppure questi esistono e non possono essere ignorati. Perché la violenza, in ogni sua forma, è un crimine che non può essere giustificato, minimizzato o normalizzato, mai.