Negli ultimi anni la scienza ha iniziato a guardare al bullismo con occhi diversi. Non più solo come un problema sociale o educativo, ma come un’esperienza capace di modificare il cervello.
Le ricerche più recenti mostrano infatti che le ferite del bullismo non si limitano alla sfera emotiva: possono lasciare tracce misurabili nel sistema nervoso, influenzando nel tempo la capacità di gestire le emozioni, di relazionarsi e di affrontare lo stress.
Quando una persona subisce umiliazioni, isolamento o derisione ripetute, il suo cervello si adatta a un mondo che percepisce come minaccioso. Ma questa forma di “protezione” ha un costo e può trasformarsi in un meccanismo di allerta costante che logora mente e corpo, anche molto tempo dopo la fine delle violenze.
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Quando il cervello resta in allerta
Uno studio recente pubblicato sul Journal of Neuroscience ha rivelato che chi ha subito bullismo reagisce in modo più intenso quando vede scene di sopraffazione. In particolare, nel cervello si attivano le stesse aree coinvolte nella regolazione delle emozioni e nella percezione sociale, come se rivivesse, ancora una volta, quella minaccia.
Il risultato è che il corpo rimane pronto a difendersi anche quando non c’è alcun pericolo reale. Nel tempo questo può tradursi in ansia, insonnia, somatizzazioni e in un generale senso di stanchezza mentale, perché il cervello non riesce più a “staccare la spina”.
Le tracce biologiche del trauma
Gli effetti del bullismo si possono osservare quindi anche a livello biologico. Le neuroscienze hanno dimostrato che le vittime presentano una maggiore attività dell’amigdala (la parte del cervello che ci aiuta a riconoscere la paura) e una minore funzionalità della corteccia prefrontale, che serve a controllare le reazioni impulsive e a regolare le emozioni.
Quando queste due regioni perdono equilibrio, l’amigdala prende il sopravvento: le emozioni diventano più forti, meno gestibili, e ogni piccolo conflitto può essere vissuto come una minaccia.
Se questo schema si stabilizza, può dare origine a disturbi d’ansia, depressione e difficoltà di regolazione emotiva, soprattutto quando il bullismo si manifesta durante l’adolescenza, una fase in cui il cervello è ancora in piena maturazione.
Le ricerche parlano anche di alterazioni dell’ippocampo (coinvolto nella memoria e nell’apprendimento) e dei circuiti della dopamina e della serotonina, i neurotrasmettitori che regolano motivazione e umore.
Questi cambiamenti spiegherebbero perché le persone che sono state vittime di bullismo possono sentirsi meno concentrate, meno motivate o soggette a oscillazioni emotive anche anni dopo.
Quindi, il trauma del bullismo non resta solo nella memoria psicologica ma si imprime anche in quella biologica.
Ogni volta che una situazione ricorda l’esperienza di sopraffazione anche solo in modo vago si attivano le stesse reti neurali, riportando in superficie emozioni di paura o vergogna. È per questo che il bullismo può “ripetersi” dentro la mente: il cervello, nel tentativo di proteggerci, finisce per riaccendere l’allarme anche quando non è più necessario.
Anche chi assiste ne porta il peso
Non solo le vittime dirette, ma anche chi assiste a episodi di bullismo può subirne un impatto a lungo termine. Osservare un atto di sopraffazione attiva nel cervello le stesse aree coinvolte nell’esperienza del dolore sociale, come il cingolato anteriore e la corteccia insulare. In altre parole, il cervello reagisce come se quella violenza stesse accadendo a noi.
Ecco perché molte persone che assistono a episodi di bullismo provano disagio, senso di colpa o impotenza: è il riflesso di un coinvolgimento empatico che il cervello registra come reale.
Un trauma che resta
Secondo i dati dell’Osservatorio Bullismo 2025 e di riviste come JAMA Psychiatry, gli effetti del bullismo non svaniscono con la fine della scuola.
Le vittime mostrano, in media, un rischio più alto di sviluppare:
- Disturbi d’ansia e dell’umore;
- Disturbi post-traumatici complessi;
- Difficoltà relazionali;
- Vulnerabilità alle dipendenze.
Con il tempo, queste conseguenze possono portare a isolamento, ruminazione mentale e difficoltà nel gestire le emozioni.
Non solo un problema sociale
Tutte queste evidenze portano quindi alla premessa iniziale: il bullismo non è solo un problema relazionale, ma un vero e proprio trauma neurobiologico.
Le esperienze di umiliazione, esclusione o violenza attivano meccanismi cerebrali che possono riprogrammare il modo in cui una persona percepisce se stessa e gli altri.
Come proteggere le vittime e intervenire in tempo
Le ricerche concordano su un punto: per proteggere le vittime di bullismo, serve intervenire subito e su più livelli, ovvero individuale, familiare e istituzionale.
Le azioni devono essere tempestive, coordinate e basate sui principi della psicologia dell’emergenza per creare vere e proprie reti di primo soccorso psicologico capaci di contenere il trauma e favorire il recupero delle funzioni emotive compromesse.
In situazioni di rischio immediato, è operativo il servizio nazionale “Emergenza Infanzia 114”, attivo 24 ore su 24, che fornisce consulenza psicologica e, se necessario, coinvolge forze dell’ordine e operatori sanitari.
Sul piano clinico, la letteratura indica diversi approcci efficaci:
- Il colloquio di supporto individuale condotto da psicologi formati nella gestione del trauma, per ridurre i sintomi post-traumatici, restituire senso di controllo e favorire la rielaborazione delle emozioni;
- La terapia di gruppo, che aiuta a uscire dall’isolamento e a normalizzare le reazioni emotive permettendo alle vittime di ritrovare un senso di appartenenza e di forza condivisa;
- Il coinvolgimento della famiglia, che rappresenta un importante fattore protettivo. Incontri congiunti e percorsi di sostegno permettono ai genitori di riconoscere i segnali di disagio e di creare un’alleanza di sicurezza attorno al minore.
Si deve però intervenire anche sull’ambiente educativo. Le linee guida più recenti invitano ad affrontare apertamente gli episodi di bullismo in classe, in modo da responsabilizzare il gruppo e promuovere relazioni sane.
Infine, i laboratori di scrittura, le attività teatrali o sportive diventano strumenti per ricostruire fiducia, sviluppare empatia e insegnare a riconoscere i segnali di esclusione prima che degenerino in violenza. È un approccio di prevenzione secondaria che non si limita a punire, ma costruisce una più sana consapevolezza collettiva.
Per proteggere e tutelare le vittime di bullismo serve una rete che unisca psicologi, insegnanti, famiglie e istituzioni; serve la consapevolezza che un episodio di bullismo non è mai “solo un gioco tra ragazzi”, ma un evento potenzialmente traumatico che va attenzionato dalle persone adulte.