Sono una fan della Leosini da sempre, adoro lei e le sue Storie Maledette, adoro il suo modo di porsi, adoro la cura con cui sceglie le parole da dire, mi piace il contrasto tra il suo abbigliamento così ricercato e i crimini di cui va a raccontare, quel suo sorriso a metà tra il sarcastico e l’accondiscendente, prima di sferrare l’attacco finale. Mi sono sempre chiesta che fine facessero i protagonisti delle sue storie, almeno quelli condannati a pene che non fossero l’ergastolo, perché mi è sempre rimasto il dubbio sull’efficacia della riabilitazione, almeno per alcuni crimini, e devo dire che con il caso dell’agente immobiliare stupratore seriale raccontato ieri proprio sulle pagine di DiLei, i fatti spesso contraddicono quello che la legge prevede, almeno per i crimini seriali.
Così mi sono approcciata scettica alla sua nuova trasmissione, Che fine ha fatto Baby Jane, pronta forse a giudicare il condannato ritornato libero, pronta a giudicare l’opportunità di dare visibilità ad uomo che si è macchiato di un omicidio, a maggior ragione visto che la persona uccisa era la madre. E invece la signora e collega, ed è un onore per me poterlo scrivere, Franca Leosini ha fatto centro ancora una volta, riuscendo a tenermi incollata allo schermo per tutta la durata della puntata, facendomi rivivere il delitto, accompagnandomi per mano nella vita scellerata di questo ragazzo, nel contesto familiare disastrato e patriarcale in cui aveva vissuto e dove era maturato il matricidio, fino ad arrivare non a perdonarlo, ma quanto meno a capire le motivazioni, assolutamente sbagliate e profondamente condannabili, che lo avevano spinto a premere il grilletto, non intenzionale come ha sempre sostenuto, ma dopo una colluttazione scaturita dopo un litigio.
La storia di Filippo Addamo accade a Catania, quando lui è poco più di un adolescente. La madre, Rosa Montalto, è una donna bellissima, bionda e con gli occhi azzurri, lui è il suo primogenito, il primo di quattro figli, avuti uno di seguito all’altro. La sua vita da mamma inizia quando lei ha solo quindici anni, poco più che una bambina, cresce insieme a loro, e in particolare con Filippo, che la considera anche un’amica, la sua confidente, a lei racconta tutto, anche del suo primo amore, e sarà lei a insegnargli a fare la barba e a realizzare un nodo perfetto per la cravatta. Un legame fortissimo, un amore straripante, a tal punto che questo figlio arriva a considerare la madre un oggetto di sua proprietà, e questo equilibrio di amore e gelosia si rompe nel momento in cui Rosa si invaghisce di un amico di Filippo, Benedetto, lei ha 34 anni, lui 24, e scappa con lui abbandonando il marito e i figli per una decina di giorni, un tempo, che, però, al suo primogenito sembra infinito. È esattamente in questo momento che dentro l’Addamo si rompe qualcosa, perché la madre non è più solo sua, capisce che non riuscirà mai a vincolarla, a trattenerla. Anche dopo che lei tornerà a casa, comprenderà che è solo questione di tempo, che lei se ne andrà di nuovo, e questa volta, per sempre.
Ma Filippo non ha gli strumenti per capire la grandezza di sua madre, quella di ribellarsi a un destino già scritto per tante donne, andate via di casa troppo presto, ritrovatesi ad accudire bambini in adolescenza, non realizza che quello di Rosa è un gesto di grande coraggio per una Sicilia ancora così troppo piccola e vittima di pregiudizi nei confronti delle donne, che considera o sante o puttane, senza vie di mezzo. Eppure siamo alla fine degli anni 90, sta per iniziare il nuovo millennio, il delitto d’onore è scomparso da vent’anni dal codice penale italiano, ma è ancora così profondamente radicato nel contesto in cui vive questo diciannovenne, che nella sua testa si fa strada l’idea di spaventare questa madre troppo libera e libertina, pensa con brandendole una pistola davanti al viso capirà i suoi errori, ma tutto quello che ha immaginato non andrà nel modo da lui previsto. Perché Rosa sa di essere nel giusto, perché Rosa quel piccolo appartamento in affitto dove è andata a vivere se lo mantiene lavorando duramente, perché Rosa ha deciso di essere felice, ha deciso di ribellarsi a delle convenzioni patriarcali non scritte, e quando suo figlio le se para davanti alle 5:30 di mattina, mentre sta per andare al lavoro, non ha paura. Pensa che sarà uno dei tanti litigi già avvenuti in passato, forse capisce anche che la pistola impugnata è un giocattolo, questo non potremmo mai saperlo, quello che sappiamo è che quell’arma giocattolo è stata modificata per sparare davvero, ed è proprio quello che accade.
Rosa Montalto muore il 27 marzo del 2000 in una fredda mattinata che avrebbe dovuto sapere di sapere di primavera e che invece saprà per sempre di morte, quella di una madre per mano del figlio. Bisogna andare avanti con il racconto per addentrarsi nella mente di questo ragazzo che quando parla della mamma che non c’è più dice: “Non ci riuscivo a non averla a casa. Mi faceva sentire tradito. Mia madre era mia, di nessun altro, si vede che sono rimasto bambino. Io volevo mia madre tutta per me e il fatto che un estraneo me l’avesse portata via… dovevo vincere. E invece è finita che non ce l’ho più”. E lo fa piangendo, lo fa consapevole di aver tolto la vita alla donna che la vita gliel’aveva data, lo fa non perdonandosi mai, ripetendolo più e più volte, con quegli occhi che sono rimasti da bambino, ma con la consapevolezza di un adulto. E poi dice quella frase che è rimasta scolpita nella mia testa “Indietro non posso tornare, non posso tornare a quella mattina maledetta, anche se lo vorrei tanto. È per questo che sono voluto andare in carcere perché in questo modo ho sentito, almeno in terra, di scontare una pena, di scontare la colpa per questo delitto atroce di cui mi sono macchiato. Ma il perdono vero, il mio perdono, quello non l’avrò mai. Spero un giorno di incontrare mia madre e di poterla abbracciare di nuovo, ascoltare la sua voce, e, sapere, se almeno lei, mi ha perdonato. Solo se avrò il suo perdono, potrò perdonarmi“.
Sono passati 21 anni dal giorno dell’omicidio, il carcere di Porto Azzurro è stato fondamentale nella riabilitazione di questo ragazzo, gli ha dato la possibilità di studiare, di avere un lavoro, di mettersi in gioco come persona, di uscire da una cella, sposarsi e avere un figlio. Filippo da un anno vive in Belgio, da quando ha capito che nella sua Catania non c’era la possibilità di dare un futuro al suo bambino, perché senza lavoro, non si sopravvive. Ha scelto di darsi una seconda chance, e di darla alla sua famiglia. Quella seconda possibilità che a diciannove anni non è riuscito a concepire per sua madre. Se penso che davvero sia pentito? Sì, penso si sia pentito ogni giorno della sua vita. Se penso che sia davvero perdonato? No, non si perdonerà mai per aver tolto la vita a sua madre. Se penso che la riabilitazione serva? In questo specifico caso penso sia servito. Rimane però un fatto incancellabile. Rosa Montalto avrà per sempre 38 anni, ed è stata uccisa dalla mano di chi, forse, amava di più. Questo non si riesce a dimenticare.