Prendo in prestito le parole Milan Kundera, che fanno da sfondo a uno dei suoi capolavori più celebri, per raccontare la vita, l’esistenza e la personalità di una donna straordinariamente libera, ma insostenibilmente leggera, almeno per gli altri. Perché nulla di tutto ciò che si può dire oggi mi sembra più appropriato quando si parla di Catherine Spaak.
Una diva, un’icona di stile, il simbolo di una generazione libera che non era ancora pronta a esserlo e che aveva sacrificato, in maniera neanche troppo velata, il coraggio di una donna sulla cui testa pendeva una taglia, quella di dubbia moralità.
Perché era la lolita dai grandi occhi e dallo sguardo seducente, quello affascinante e a tratti ammaliatore, era la giovane donna che viveva da sola, che aveva avuto una bambina a soli 17 anni, quella dei quattro matrimoni e di un arresto.
Era la donna che si raccontava con generosità, che diceva tutto quello che le altre non avevano il coraggio di dire e di fare. Lei, invece, lo ha fatto senza remore, anche se forse qualcuno le aveva consigliato di non farlo. Anche se aveva dalla sua parte la popolarità e il successo, anche se poteva essere la diva che era e basta. A qualcuno sarebbe bastato, a tutti forse, ma non a Catherine Spaak.
Ecco perché la sua scomparsa ha un retrogusto dolce amaro, perché ci ricorda tutto ciò che di lei non è stato compreso, l’incapacità italiana di andare oltre il personaggio, oltre gli stereotipi, oltre i pregiudizi. Ecco perché quell’immagine sensuale, quel sorriso iconico, quel caschetto biondo sfoggiato con disinvoltura sono destinati a raccontare oggi sempre più la donna e meno il personaggio.
Lo stesso che ha dominato la scena italiana, il mondo dello spettacolo, della televisione, del cinema e della musica. Indimenticabile il suo Esercito del surf che risuona come un monito a vivere la vita con leggerezza e libertà, così come lo faceva lei, quando il suo viso era ovunque, sui 45 giri, sul piccolo schermo, sui manifesti e sulle copertine dei giornali. Era nelle mente degli uomini come sogno proibito e in quella delle donne come il simbolo di un coraggio da imitare.
Ma erano tempi acerbi quelli per seguire le orme di Catherine Spaak. Per imitare i suoi passi, quelli eleganti e decisi immortalati tra le strade della capitale che lei aveva scelto come casa. E sembra ancora di vederla lì, a Roma, tra i suoi film e le istantanee di vita vera, tra gli apprezzamenti e l’invidia, tra l’ammirazione e l’incomprensione.
La stessa incomprensione che l’ha trasformata nella protagonista indesiderata di una storia amara e beffarda, quella che l’ha costretta a separarsi dalla sua bambina, perché era giovane e scandalosa, perché a quei tempi una donna non era veramente libera.
Era il ‘62, avevo 17 anni e, per la mentalità dell’epoca era uno scandalo. Ero ospite a casa Capucci dopo il mio matrimonio con Fabrizio, presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia. Fui arrestata a Bardonecchia (…)Mia figlia mi è stata tolta perché il giudice scrisse che essendo io attrice ero di dubbia moralità. Sono stati anni difficili per le donne.
Lo ha raccontato sempre quell’episodio, quello che l’ha vista separarsi da sua figlia Sabrina. Ha parlato di quel bigottismo travestito da perbenismo denunciando anche le molestie subite sul set dagli attori più acclamati, quando tutte le altre colleghe non avevano il coraggio di farlo.
Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni, quando ci ha lasciati all’età di 77 anni, quando abbiamo dovuto dire addio a quella ragazzina di quindici anni che aveva lasciato la Francia per trasferirsi in Italia, e poi a quell’elegante donna libera, indipendente e autonoma che sedeva elegantemente nei salotti televisivi. La lolita e la mamma, il simbolo di una modernità non compresa. Catherine Spaak è stata tante cose, ma è stata sopratutto una donna libera e così la ricorderemo.