Quando la violenza maschile trova legittimazione con i like: il caso “Mia moglie”

“Mia moglie” non è goliardia ma un rito di dominio digitale: la violenza di genere si rinnova online, tra like, condivisioni e silenzi compiacenti

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Francesca Secci

Giornalista, esperta di lifestyle

Sarda, ma anche molto umbra. Giornalista pubblicista, sogno di una vita, scrive soprattutto di argomenti di attualità, lifestyle e cura della casa.

Negli ultimi giorni è esplosa in rete la vicenda del gruppo Facebook “Mia moglie”, e il disgusto è inevitabile. Più di 32.000 uomini (trentaduemila) hanno usato quello spazio per condividere immagini intime di donne, spesso delle loro stesse compagne, senza alcun consenso, trasformando l’abuso in intrattenimento.

Non c’è rispetto, solo un’esibizione collettiva di possesso e disprezzo. L’atmosfera ricorda quella di un bar sport digitale, ma con ancora meno dignità, dove il corpo femminile diventa bersaglio di scherno, un luogo in cui voyeurismo e cyberbullismo sessista si mischia fino a normalizzare quella che dovrebbe essere intimità.

È una pagina che non sarebbe mai dovuta esistere, e che racconta bene quanto la violenza possa travestirsi da gioco online, finendo invece per consolidare un clima di disprezzo e assenza totale di rispetto.

Il laboratorio della violenza digitale, il gruppo Facebook “Mia moglie”

Questa storia non piove dal cielo. Affonda invece le sue radici in un terreno noto, troppo noto: quello della mascolinità tossica che si traveste da goliardia, ma puzza di prepotenza e dominio. Non è solo un episodio, ma l’ennesima manifestazione di un sistema che educa al sopruso e all’invisibilità dell’altro. Quello che si è visto, e che si continua a vedere, spesso al riparo delle chat chiuse o dei gruppi “per soli uomini”, somiglia più a un rito tribale che a una semplice degenerazione social.

Uno spazio di branco, non di dialogo. Dove l’identità maschile si costruisce in opposizione a quella femminile: le donne non sono interlocutrici, ma trofei, figurine, carne di cui vantarsi. Ogni foto rubata diventa un segno di potere, un’insegna fallica da sventolare tra compari. Il consenso? Un concetto rimosso, ridicolizzato, talvolta usato come battuta. Si ride, si insulta, si condivide. Si esercita il potere con nonchalance, perché, tanto, cosa potrà mai accadere.

Lì dentro, la donna è svalutata fino a diventare niente. Merce, ornamento, conferma. Una “appendice di virilità”, utile a definire il maschio solo in quanto sua proprietà. È un’economia dell’umiliazione: si scambia la libertà dell’altro con una pacca sulla spalla, si converte il rispetto in un meme. E quando il gruppo ride, e lì che si raggiunge il vero risultato.

Ma non possiamo più fingere che sia solo un gioco. Questa è una liturgia della spoliazione identitaria, dove le vittime sono spogliate due volte: prima della loro immagine, poi della loro dignità. E ogni spettatore silente è parte del rito.

La manosfera italiana, terreno fertile per odio e misoginia online

Il caso di “Mia moglie” va inquadrato in un fenomeno più ampio: la cosiddetta manosfera, ovvero quell’insieme di forum, blog e community online dove il rancore maschile verso le donne si raduna e si rafforza. Non è un episodio isolato: nei mesi scorsi il web italiano ha visto comparire altri casi simili, contesti in cui si teorizzano rancori edipici, misoginia e desiderio di vendetta.

L’odio per le donne è il “collante” che unisce incel (i celibi involontari) e altri gruppi misogini. Figure “carismatiche” come Andrew Tate (anche se per fortuna meno popolari qui) hanno diffuso in rete l’idea che le donne siano “proprietà” dell’uomo. Tra i loro seguaci, storie di frustrazione affettiva sfociano in rabbia verso il genere femminile.

Questo ecosistema culturale fuoriesce dalla rete negli atti estremi: in Italia esempi tragici come gli omicidi di Antonio De Marco e Andrea Longo erano ispirati da ideologie simili.

Complicità dei like: quando la violenza diventa spettacolo social

La violenza digitale non ha bisogno di urla o di mani sporche per fare male. Le basta un pollice alzato, una risata in emoji, una condivisione fatta con la stessa leggerezza con cui si inoltra un video di gattini. Ma dietro ogni gesto apparentemente innocuo si nasconde un meccanismo più subdolo: la legittimazione. È questo che rende il danno ancora più profondo, più vischioso, più difficile da estirpare.

Il palco è quello dei social, dove lo scempio diventa spettacolo, e lo spettacolo diventa norma. Ogni like su una foto intima sottratta, ogni commento che ironizza su un corpo non proprio, contribuisce ad anestetizzare e ad abituare la coscienza collettiva. La rete, in teoria strumento di connessione, si trasforma così in un Colosseo virtuale dove il consenso si misura a colpi di reaction.

Nessuno è spettatore innocente. Il pubblico ride, ma ride male. Non assiste, partecipa. E nel partecipare, si sporca. Perché un contenuto che umilia, una frase che ferisce, una foto rubata e condivisa non sono mai neutrali. Sono scelte. Ogni click racconta da che parte si sta.

È per questo che qualcosa, lentamente, si muove. Sempre più utenti iniziano a rompere quel fragoroso silenzio di approvazione che fa da colonna sonora alla violenza. Scrivono, denunciano, rifiutano di ridere. Non cambieranno il mondo con un commento, ma almeno provano a non essere parte del suo sfacelo.

Il vuoto normativo e le responsabilità delle piattaforme digitali

Il fatto che il gruppo sia stato chiuso con una certa rapidità mette però in luce un vuoto normativo. Meta ha annunciato la rimozione del gruppo citando le proprie policy sullo “sfruttamento sessuale di adulti”, ma l’intervento è arrivato solo dopo l’onda mediatica.

La Commissione femminicidio della Camera ha denunciato la situazione: “Basta tolleranza del sessismo e della violenza sui social, altrimenti è complicità”, esortando le piattaforme a chiudere subito le chat misogine.

In Italia esistono leggi (come quella sul revenge porn) che sanzionano la diffusione di immagini intime senza permesso, ma applicarle in massa resta difficile: se la “vittima” è genericamente la moglie di qualcuno, chi denuncia? E finché non scatta la segnalazione, i moderatori intervengono solo d’ufficio o sotto pressione.

E basta fare una ricerca facilissima su Facebook (scrivendo solo nella barra di ricerca “Mia Moglie”) per vedere altri gruppi della medesima caratura che purtroppo rimangono ancora in piedi.

Dal caso “Mia moglie” al sistema della violenza di genere in Italia

Dopo lo shock, resta il compito più difficile: guardare in faccia la realtà. Non quella del singolo episodio, ma quella della struttura che lo produce, lo protegge, lo ripete. La violenza di genere non è una deviazione. È un sistema. Non ha bisogno di mostri, ma di normalità: quella quotidiana, impastata di stereotipi, frasi fatte e occhi chiusi.

Nel 2024, oltre cento donne in Italia hanno perso la vita per mano di un uomo. Più della metà erano legate affettivamente al loro assassino. Ma nessuno si sveglia assassino: ci si arriva per gradi, dentro una cultura che insegna fin da piccoli che l’amore è controllo, che la gelosia è un complimento, che il possesso è una forma di cura.

Quando si parla di “raptus”, di “bravo ragazzo che ha perso la testa”, si fa più che minimizzare: si trasforma il carnefice in vittima, e la vittima in nota a piè di pagina. È l’ennesima beffa: prima ammazzata, poi spiegata via con un titolo indulgente, come più volte abbiamo tristemente visto.

E mentre si fa finta di non capire, i gruppi social che ridicolizzano, mercificano e umiliano le donne continuano a crescere. Non sono un’anomalia, ma il sintomo banale di un pregiudizio radicato.

Le leggi servono, ma non bastano. Non si possono estirpare secoli di dominio con un comma e una multa. Serve qualcosa di più radicale: una nuova grammatica delle relazioni. Un’educazione sentimentale che insegni a vedere l’altro come un essere umano, non come un’estensione del proprio ego.

Finché non impareremo a riconoscere la radice del problema, continueremo a piangere l’effetto. E a ogni nuova Ilaria Sula, a ogni nuova Giulia Cecchettin, a ogni nuova Sara Campanella, ci chiederemo ancora, ipocritamente: “Com’è potuto accadere?”.

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