“Voglio spiegare il motivo che mi ha spinta a raccontare la storia di mia figlia, una breve vita vissuta solo tredici mesi, la maggior parte dei quali trascorsi in un ospedale. Nata con una sindrome rara, la mia bambina ha conosciuto l’amore incondizionato, il mio e quello di suo padre, ma ha provato sulla pelle anche il dolore dell’incuria e del menefreghismo di chi si è professato medico e infermiere. Quando la mia bambina se n’è andata, ho sentito il bisogno di confrontarmi con le altre mamme, con le donne che avevano vissuto il mio stesso dolore. Volevo capire come avevano affrontato la malattia, se c’era qualcosa che avrei potuto fare, che avrebbero potuto fare gli altri, ma soprattutto volevo sapere come ricominciare a vivere senza di lei, sempre se questo era possibile”.
Inizia così la telefonata con Katia Garzotto, con quella madre coraggiosa che, nonostante il dolore e la sofferenza, ha scelto di raccontare generosamente la tragica perdita della sua bambina. È una chiacchierata intensa e commovente, la nostra, ma nuda e cruda e non lascia spazio a convenevoli.
Del resto la sua bambina, affetta da una sindrome rara, è morta a soli 13 mesi di vita. E non c’è parola gentile o pensiero che possa alleviare il dolore di una mamma che si vede costretta a dire addio alla sua piccola.
Sono passati anni da quel 13 aprile del 2003, un giorno soleggiato che profumava già di primavera e che si è trasformato nella pagina più drammatica della vita di Katia e di suo marito, segnata per sempre da un inchiostro indelebile che non può essere lavato via. E chissà se Aurora lo sapeva che fuori era già primavera, chissà se poteva sentirli sulla pelle quei raggi tiepidi del sole che riscaldano, che illuminano quando fuori è buio.
Katia questa storia non la vuole dimenticare, non può farlo, perché mi ha raccontato che le sue parole le permettono di tenere in vita Aurora. Perché non può immaginare che la vita della sua bambina, anche se durata solo 13 mesi, finisca nell’ombra delle cose non dette. E perché anche le altre mamme che vivono o hanno vissuto una situazione simile alla sua, da quel dolore possano farsi avvicinare, per sentirsi meno sole. La storia di Katia, e quella della sua bambina, ora, echeggia in quelle parole, raccontate e scritte anche in un libro: Oltre l’impossibile.
Correva l’anno 2002 quando, in Katia, si fece forte il desiderio di maternità. Un sogno coronato dalla scoperta di aspettare in grembo un bambino, anzi una bambina. Aveva 31 anni ed era felice come forse non lo era mai stata. Una felicità destinata, almeno all’apparenza, a restare tale perché la gravidanza procedeva bene, o almeno così le dicevano i medici che la tenevano in cura.
C’era stato un distacco di placenta, però, alla nona settimana di gravidanza, ma i medici le dissero che andava tutto bene, che la bambina cresceva ed era sana. Che aveva tanti capelli, anche se non riuscì mai a vedere il profilo della piccola. ”È girata”, le dissero.
“Fu durante la flussimetria, un esame diagnostico che serve a valutare la funzionalità della placenta ed il benessere fetale, che successe qualcosa di strano, qualcosa che solo ora riesco a capire” – mi ha raccontato Katia – “Una dottoressa giovanissima notò qualcosa che non andava, ma non lo disse ad alta voce. Chiamò un altro medico e si allontanarono da me per parlare, lei le disse che non le convincevano le misure del cranio. Ma l’ecografia continuò normalmente e il dottore mi disse che andava tutto bene, che dovevo solo mangiare un po’ di più perché mia figlia era un po’ piccolina. Alla nascita mia figlia pesava 3010 kg. Il peso era l’unica cosa che andava bene.”
Katia non ha visto subito la sua bambina, né poteva immaginare che la piccola Aurora fosse affetta dalla sindrome di Goldenhar, una rara malattia congenita caratterizzata dalla presenza di cranio e viso dalle dimensioni ridotte, cisti dermoidi oculari e malformazioni presenti sulla colonna vertebrale.
Non lo ha potuto fare perché dopo 15 lunghissime ore di travaglio, dovettero optare con urgenza per un parto cesareo, altrimenti la bambina sarebbe morta. E non lo ha potuto fare neanche perché, al suo risveglio, Aurora era stata ricoverata in un’altra struttura ospedaliera.
“Quella è stata la notte più brutta della mia vita. Le ostetriche e le infermiere mi hanno trattata malissimo. Ricordo che attendevo con ansia il cambio turno con la speranza di incontrare persone più gentili in grado di riconoscere il mio malessere, di rispondere alle mie domande e di calmare la mia agitazione, per fortuna fu così”. Furono proprio le infermiere di quel turno a riconoscere l’urgenza della situazione e a preparare la sala parto per il cesareo.
Al risveglio, però, Katia non trovò la sua bambina. Davanti a lei solo gli occhi increduli e visibilmente commossi di suo marito che trattenevano le lacrime, che celavano il segreto più doloroso di sempre. Disse a sua moglie che Aurora non era lì, che era stata portata in un altro ospedale perché nata con il labbro leporino.
“Mio marito ha mentito per me, lo ha fatto perché ero già visibilmente provata dal parto e perché aveva paura che, agitandomi, potessero esserci complicazioni post operatorie. Ma fu un infermiera a raccontarmi la verità, lo fece pensando che io già sapessi che mia figlia era affetta da sindrome di Goldenhar. Io lo stavo scoprendo solo ora”.
Dopo 5 giorni dalla nascita, a seguito delle dimissioni, Katia vide per la prima volta sua figlia. In ospedale le insegnarono a prendersi cura di lei, a nutrirla in maniera artificiale e a riconoscere le febbri letali di cui era soggetta.
“Dottore, farò qualsiasi cosa per mia figlia, ce la metteremo tutta.”
“Ascolti signora, credo che non abbia compreso la gravità della situazione, ad Aurora manca il cervelletto e il ponte cerebrale o perlomeno ne ha una piccolissima parte che è quella che la tiene in vita, ma non per molto tempo”.
“Non è stato facile gestire la malattia della mia bambina, non lo è stato perché neanche i medici erano capaci di farlo. Il pediatra che mi assegnarono me lo disse chiaramente e lo scoprii a mie spese quando gli ospedali non erano in grado di fornirmi le attrezzature di cui avevo bisogno, che mi spettavano di diritto”.
Dopo 5 mesi Aurora è tornata a casa, ma nelle settimane a seguire Katia e suo marito hanno continuato a fare avanti e dietro dall’ospedale. Lei ha lasciato il lavoro per prendersi cura della sua bambina, per stare al suo fianco, per amarla come solo una mamma sa fare.
“Ho incontrato tante mamme in ospedale in quel periodo e nel loro dolore mi sono riconosciuta. Come potevano neutralizzarlo? Come potevamo convivere con quel terrore di perdere un figlio? Un terrore che nel mio caso si è trasformato in realtà”. Il 15 aprile, dopo 13 mesi di vita, la bambina non ce l’ha fatta.
13 mesi fatti di amore incondizionato, ma anche di paura e dolore, di una vita sociale completamente annullata, di domande infinite senza risposte. 13 mesi fatti anche di disperazione e rabbia, quella di Katia nei confronti dell’incuria e della disattenzione dei medici. “Mi sono data la colpa per tanto tempo, per non aver fatto l’amniocentesi, ma la mappa cromosomica di Aurora andava bene. Le sue malformazioni si sarebbero dovute vedere con l’ecografia morfologica alla ventiduesima settimana e poi con indagini più specifiche”.
Devo chiederglielo: “Sei ancora arrabbiata?”. Lei mi risponde di sì perché quello che vuole adesso è solo giustizia per la sua bambina. Ecco perché ha scritto il suo libro, ecco perché spera che il suo racconto sia d’aiuto ad altre madri.
Katia oggi è di nuovo mamma di due splendidi ragazzi. La sua piccola Aurora, invece, continua a vivere nelle pagine di un libro e nelle storie che non smetterà mai di raccontare.