Una settimana fa c’era ancora la speranza. Sette giorni fa gli elicotteri volavano a bassa quota sopra il tetto di casa mia, e nella mia testa si faceva strada la paura che Giulia potesse non fare più ritorno a casa, che le braccia di Gino rimassero vuote della sua presenza, per sempre. Eppure nei meandri più reconditi del mio cervello, o, forse, del mio cuore, ho continuato a sperare, ho continuato a credere che non si avverasse quel tragico epilogo che tutti sospettavamo fin dalle prime ore della scomparsa. Il ritrovamento del corpo di Giulia ha segnato un punto di non ritorno non solo nella vita dei suoi familiari, ma anche nell’anima di milioni di Italiani che hanno seguito con apprensione gli appelli, le ricostruzioni, i post, ma, soprattutto hanno imparato a riconoscere il sorriso di quella piccola giovane donna, così grande e dolce, da far breccia nel cuore di ognuno. E Giulia è diventata la figlia, la sorella, la nipote di tutti, e la sua vita spezzata, insieme alla dignità e forza della famiglia Cecchettin, ha provocato un’onda devastante di dolore, ma anche di amore, di rabbia e incredulità, e, forse, per la prima volta, per davvero, questa morte così ingiusta e terribile, è riuscita in un’impresa sovrumana: scuotere le coscienze.
Perché Filippo in una manciata di minuti si è trasformato da “bravo ragazzo”, a mostro della porta accanto, un maledetto assassino giovane e crudele, dimostrando quanto le donne non siano mai davvero al sicuro, quanto la parola amore venga usata in maniera distorta, perché l’amore non è possesso, perché l’amore non uccide, non soffoca, non toglie la vita. Di fatto sbattendo in faccia a chiunque la banalità e la facilità del male e di come nessuno di noi conosca davvero bene chi gli sta accanto, come nessuno di noi sappia se chi ha davanti sarà pronto ad accettare un rifiuto, se sarà in grado di elaborare un no, metterselo via e ricominciare. E sì adesso fanno male, anzi lacerano in mille pezzi il cuore e l’anima, le parole che Giulia aveva spedito in un vocale alle sue amiche, dimostrando, forse, la reale pericolosità di Filippo, per quello che realmente era, un narcisista manipolatore, incapace di accettare la fine della storia, e, per questo, in grado di porre fine, non alla sua, di vita, come minacciato, ma a quella della sua ex ragazza. Adesso è facile dire: “Ma perché non lo ha detto, perché non ha denunciato i suoi timori”, chi afferma queste cose non è in grado di fare i conti con la bontà d’animo di Giulia, con la paura che lui potesse compiere un gesto inconsulto, perché lei alla fine aveva creduto alle sue parole, alle sue affermazioni, perché tu alla fine ci credi, credi a chi dice “senza di te non posso vivere”, solo che, purtroppo, quelli che lo rimarcano con così tanta enfasi, la loro, di vita, non la interrompono mai, spezzano quella di chi, alle loro parole, ha creduto.
Eppure nemmeno Gino Cecchettin è stato creduto, la mattina di domenica 12 novembre, quando alle 13:30 è andato a denunciare la scomparsa di sua figlia, etichettandola come allontanamento volontario, nonostante avesse fatto capire che mai la sua bambina si sarebbe allontanata, affermando con forza di temere per la sua incolumità. Certo adesso che sappiamo come sono andate le cose, e che a nulla sarebbe servito cambiare la forma della denuncia, rimane la rabbia che per giorni tutte le testate giornalistiche, tranne la nostra, abbia parlato di Giulia e Filippo come un unicum, non come due identità distinte, non per quello che traspariva dalle parole della sua famiglia, un sequestro di persona, a tutti gli effetti, una vittima, ed un carnefice, una fuga volontaria ed un rapimento subito.
Ma ad oggi nulla serve più, non serve recriminare, non serve dire “io avrei fatto, io avrei detto, io avrei capito”, perché non siamo noi quelli a cui è stata strappata una figlia, una sorella, una nipote di 22 anni, non siamo noi quelli che la notte piangiamo nel buio e nel silenzio delle nostre camere, non siamo noi quelli che non hanno più lacrime Noi siamo quelli “fortunati”, quelli ai quali non è capitato, e forse, proprio per questo, abbiamo un compito nei confronti di chi, questa “fortuna”, è stata negata. Denunciare, raccontare, tenere alta la guardia, non voltarsi dall’altra parte, dare voce a chi non ce l’ha più. E così in maniera spontanea ieri sera ho pensato ad un modo per tenere alta la memoria di Giulia Cecchettin, e, dato che il mio lavoro, è quello di raccogliere emozioni e trasformarle in storie, questa volta ho deciso che dovesse accadere il contrario, che fossero le storie di tutte le donne a raccontare le loro emozioni, attraverso le loro parole. Ecco uno dei tanti messaggi che mi sono arrivati:
Ciao Irene. Io non ero esattamente adolescente, ma ho vissuto otto anni di persecuzione, culminata in una aggressione con mazzuolo d’acciaio (una sorta di martello, ndr.) il 16 luglio del 2010. Sono viva dopo un lungo periodo di cure e riabilitazione. Sono riuscita a riprendermi quasi del tutto ma è stato un miracolo. Oggi lui è fuori libero.
Ho chiesto così attraverso i miei social testimonianze di donne che avessero subito stalking, vessazioni, abusi fisici e psicologici, e ai familiari di vittime di femminicidio, di raccontare il loro calvario, e quello che è uscito fuori, fa così male da togliere il fiato. Perché non è vero che le donne non denunciano, spesso provano a farlo e nel migliore dei casi vengono convinte a non farlo, nel peggiore, non vengono credute. Oppure la frase ricorrente che viene loro detta è: “purtroppo abbiamo le mani legate, torni quando avrà fatto qualcosa di grave, altrimenti non possiamo procedere”. Che in pratica significa: “fino a quando non accade qualcosa di brutto non possiamo intervenire”. E lo capiamo tutti quanto sia grave quesì affermazione, e, soprattutto, a cosa porti. E così è nato quest’idea, da una donna per le donne, di dare voce a queste storie perché non cadano nel vuoto, perché ogni voce ha diritto di essere ascoltata, ogni donna ha diritto di essere creduta, perché chi denuncia non lo fa mai a cuor leggero, e, soprattutto, non lo fa mai (e sottolineo purtroppo) al primo episodio. Noi non dobbiamo aspettare che sia l’ultimo per aiutarle, aiutateci ad aiutare. Non voltiamoci dall’altra parte. In memoria di Giulia Cecchettin. E di tutte le Giulie del mondo. Facciamo rumore.