Giada Salvi: sono guarita dall’anoressia per smettere di soffrire

Tre anni di incubazione mascherata dall'ortoressia, poi l'anoressia è esplosa e ha portato via a Giada 15 chili e la voglia di vivere. Ecco come è riuscita a salvarsi

Pubblicato: 27 Settembre 2021 12:27

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Milano è stata travolta dalla Fashion week, uno degli appuntamenti più importanti, se non il più importante nel mondo della moda, quello dal quale partiranno i diktat e le tendenze per le future stagioni e dopo un anno in cui le pagine di giornali si sono stracciate le vesti inneggiando al body positive, pensavo che in qualche modo le cose fossero cambiate. Mi aspettavo di vedere passerelle piene di corpi non conformi e modelle curvy, ma la verità è una sola, non giriamoci troppo intorno: l’inclusione non fa rima con il fashion, almeno non per quello italiano, che strizza l’occhio alle taglie over 46 solo per non essere tacciato di grassofobia, oppure per essere invitato in tv a parlare di normalizzazione dei corpi, per dimostrare quanto gli stilisti stiano cambiando.

Peccato che questa normalizzazione avvenga solo a parole, perché poi nei fatti trovare una doppia xl in qualunque store, che sia fast fashion o alta sartoria, diventa impossibile, a meno di non rivolgersi ai negozi specializzati in taglie “forti” oppure comprare online, l’unica vera ancora di salvezza per chi desideri esaltare le proprie forme e non nasconderle. Ed è proprio per questo motivo, e in questo preciso momento, dove sulla passerella stanno sfilando ragazze emaciate nella loro taglia 36 o 38, che ho deciso di raccontarvi la storia di Giada Salvi, una giovane donna che è riuscita a guarire dall’anoressia grazie a una grandissima forza d’animo e all’amore delle persone che le stavano vicino.

Una frase più di tutte nella nostra chiacchierata mi ha colpita: “Quando sarà più difficile soffrire che cambiare, allora cambierai”. Si ha sempre l’idea che la magrezza faccia rima con felicità e invece Giada mi ha raccontato di come il rapporto con un padre anaffettivo e sminuente abbia minato la sua autostima, come le immagini di Instagram l’abbiano convinta che quella fosse la realtà e non la manipolazione dei corpi attraverso i filtri, di come il suo perdere peso fosse una richiesta d’aiuto per il dolore che aveva dentro e che non sapeva in quale altro modo far affiorare. Il controllo sulle calorie ingerite la faceva sentire onnipotente e accettata, fino a quando non è arrivata a pesare quaranta chili ed ha capito che l’unico modo per non soffrire più era quello di cambiare. Testa, corpo e vita. Questa è la sua storia.

“Queste foto risalgono all’anno 2018, uno dei periodi più difficili della mia vita. Allora, le mie giornate ruotavano tutti intorno al cibo. Nessuna passione al di fuori del fitness. Nessun altro pensiero se non quello del corpo. Il mio mondo claustrofobico era una prigione di false credenze, rigidi principi, norme e dettami. Il mantenimento di un’alimentazione “corretta, giusta, sana” era il solo obiettivo cui aspiravo, il raggiungimento della perfezione estetica, l’unica grande ambizione. Palestra, allenamento, lunghe camminate compensatorie, un numero infinito di “dovrei”. La verità è che niente mi bastava mai. Io non mi bastavo mai. La risposta che trovavo alla mia insoddisfazione si rifletteva sul corpo, simbolo di fallimento e di insopportabile manchevolezza. Uno strumento per esprimere l’impossibilità di trovare alternative al dolore che mi annientava (da) dentro. Un corpo erroneamente percepito, vittima di ogni insoddisfazione e colpa. Il mito della bellezza-magrezza esibita, fotografata era diventato un imperativo etico. La perfezione estetica un presupposto implicito delle mie qualità. La posta in gioco, al tempo non lo sapevo, non era tanto dimagrire o apparire agile e leggera, quanto essere socialmente accettata, riconosciuta, approvata. Incapace di esprimere a parole il mio profondo tormento, incaricavo il cibo, la palestra, la dieta a tenere per me il discorso. Il mio malessere alimentare altro non era che una piccola rivoluzione silenziosa, un modo per riguadagnare spazio, per esprimere i bisogni che la mente non riusciva a pensare. Il mio corpo urlava la sua denuncia al mondo, esibiva la mia sofferenza al fine di renderla visibile agli occhi di chi mi stava a fianco, affinché venisse vista riconosciuta, accolta. Tormentarmi per un piatto di pasta condito significava dare forma e peso alla mia inconfessabile paura di vivere. Significava ricondurre il mio smarrimento complessivo ad una serie di atti pratici con i quali operavo esorcisticamente contro le mille cause della mia insicurezza.”

Giada quando hai iniziato a soffrire di disturbi alimentari?
Risalire all’origine del mio DCA non è semplice. Tra il ‘contagio emotivo’ e lo sviluppo dei sintomi clinici è intercorso un lungo lasso di tempo, durante il quale non avevo preso coscienza del problema che mi affliggeva. Un periodo di incubazione durato all’incirca tre anni. L’ortoressia, almeno inizialmente, ha mascherato sotto false apparenze intenti tutt’altro che lodevoli, rivelando la sua natura subdola e meschina. Ho iniziato a perdere peso intorno ai 18 anni, quasi inconsapevolmente, solo mangiando di meno, escludendo specifiche categorie di alimenti e prediligendo cibi dietetici. Al tempo, la scelta di prodotti con scarso, o insufficiente, apporto calorico mi tranquillizzava; sapermi al riparo dall’eventualità di un aumento di peso mi dava illusione di leggerezza, più che fisica, emotiva.

Chi è stato il tuo peggior carnefice?
Diciamo che se dovessi andare a ricercare le origini di questa sofferenza interiore la figura che mi viene in mente è quella di mio padre, un padre anaffettivo, molto scostante nella dimostrazione di quell’amore che dovrebbe essere quasi scontato per una figlia, assente pur essendo presente, che credo sia la cosa peggiore, che ti fa credere di non essere meritevole di quell’amore, quindi una presenza svalutante, che mi ha fatto credere per molti anni di non meritarmi la felicità. Lì è stato piantato il seme del controllo che poi negli anni si è manifestato in varie forme, disturbi ossessivi compulsivi, attacchi di panico, fobie generalizzate. Mio padre è stato il mio giudice severo fino a quando io non mi sono sostituita a lui, diventando la peggior carnefice di me stessa.

Quanto i social hanno influito sul tuo disturbo?
Un ruolo determinante nello sviluppo e nel mantenimento dei sintomi ossessivi è stato giocato da Instagram che, attraverso l’esposizione massiva di corpi tonici e sempre perfetti, aveva influenzato negativamente la mia immagine corporea infierendo sulla mia già fragile autostima. Il tentativo di uniformarmi a un ideale estetico di bellezza inaccessibile, si era presto trasformato in un’estenuante lotta contro me stessa. A innescare il vortice distruttivo fu il senso di gratificazione derivante dalla mia capacità di controllo e resistenza: trattenermi dall’assecondare le “voglie”, e persino la fame, mi faceva sentire forte, quasi onnipotente, e generava in me un ingannevole senso di autonomia da ogni bisogno. La mia autostima migliorava ogni qualvolta riuscivo a mantenermi negli schemi alimentari prefissatami. Il binario che avevo scelto di percorrere, ovvero quello dell’autocontrollo e della privazione, rappresentava una via sicura, certa, prevedibile, al riparo da ogni qualsiasi forma di evoluzione: l’ideale per una “me” terrorizzata dal cambiamento. Controllare l’alimentazione mi faceva davvero sentire padrona del mio corpo, invece ero soltanto schiava della mia ossessione. In quel periodo, ogni sforzo compiuto per raggiungere la perfezione estetica si rivelava inutile: nulla di ciò che facevo, pensavo, dicevo era mai abbastanza. Io non lo ero, abbastanza. 

Quando hai capito di avere un problema?
Ci sono discorsi, parole, canzoni che riecheggiano nella nostra mente anche a distanza di anni. “Quando sarà più difficile soffrire che cambiare, allora cambierai” è la frase forse più rappresentativa del mio percorso di crescita. Ho compiuto il primo passo verso il cambiamento quando ho preso coscienza del fatto che ogni cosa, nella mia vita, stava precipitando. C’era un guasto nel mio sistema emotivo responsabile del deterioramento progressivo, ma costante, della mia quotidianità. Tutto era diventato estremamente difficile: mangiare, dormire, relazionarmi, uscire, studiare, vivere. Niente e nessuno poteva alleviare quel tormento. Il mondo mi faceva paura, la mia mente mi faceva paura e ogni cosa, dentro e fuori da me, rappresentava un ostacolo al raggiungimento della serenità. Il calo ponderale di peso aveva materializzato sul corpo il sentimento di angoscia che nutrivo dentro me sin da bambina. Una sofferenza che, proprio perché sconosciuta e apparentemente insensata, tentavo di sopprimere: perdendo peso per “farle perdere” consistenza, dimagrendo per “far dimagrire” anche il dolore. La scomparsa di quei 15 chili, vitali per la sopravvivenza, rifletteva la volontà di sottrarmi al piacere, alla gioia, alla vita. 

Dove hai trovato la forza di reagire?
La forza di reagire l’ho trovata dentro me, fra le pieghe di un’anima sgualcita ma vibrante. Ma è grazie alla vicinanza sincera e non giudicante delle persone che mi stavano a fianco, all’amore dei miei genitori, del mio fidanzato e della sua famiglia che ho creduto alla possibilità di rifiorire. Accanto a me in questo cammino di rinascita, altri preziosi compagni di viaggio: la mia psicoterapeuta e il supporto farmacologico del dottor Tancredi, psichiatra del centro di psicologia clinica “Anisé’”.

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