Morire per sopravvivere: la tragica storia del disastro aereo delle Ande

Il 13 ottobre 1972 un aereo si schiantò sulle Ande: ciò che successe dopo è una pagina drammatica, che racconta storie di sopravvivenza e paura

Pubblicato: 12 Ottobre 2022 12:17

DiLei

Redazione

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1972-2022. Sono passati cinquant’anni, ma è ancora davvero molto difficile parlare del disastro aereo delle Ande senza provare turbamento, senza porsi dei quesiti talmente al limite da risultare quasi inquietanti. Eppure, il ricordo di quel drammatico incidente deve essere tramandato ai posteri, perché per quanto tragico e disturbante, parla sia di morte che di vita. Parla di sopravvivenza, di dolore, di speranza e di disperazione allo stesso tempo.

Senza volere esagerare, l’incidente aereo del 13 ottobre 1972 è una storia che dipinge la parte più complessa e allo stesso tempo più profonda dell’umanità. Una storia che parte da un’occasione felice, quella di un viaggio, e si conclude con un salvataggio in extremis che porta con sé parole pesanti come cannibalismo, agonia e morte.

Disastro aereo delle Ande: il volo, l’incidente e lo schianto

Ma prima di arrivare alla parte più drammatica, vogliamo fare una premessa. Era il 12 ottobre 1972 quando un’entusiasta squadra di rugby, l’Old Christians Club di Montevideo, sale a bordo di un Fairchild FH-227 D dell’aeronautica uruguaiana. Sull’aereo c’era una squadra di giovani entusiasti giocatori, ma anche tecnici, allenatori, alcuni familiari e una donna che doveva partecipare al matrimonio della figlia.

La meta finale doveva essere Santiago, dove la squadra avrebbe giocato contro degli avversari inglesi. In tutto, il volo aveva a bordo quaranta passeggeri e cinque membri dell’equipaggio, compresi i due piloti: il colonnello Julio César Ferradas, esperto, e il copilota tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, alle prime armi. Di fatto, il viaggio non cominciò con grandi premesse: un fronte temporalesco costrinse Ferradas a fare una tappa a Mendoza, in Argentina, per ripartire proprio quel maledetto 13 ottobre.

Durante il secondo volo, purtroppo, il comando passò al copilota Lagurara, che commise degli errori fatali. Il più grave fu convincersi di essere già allineato verso Santiago e iniziare la manovra di discesa. Durante questa manovra, l’aereo si inoltrò in una turbolenza che scatenò il primo incidente: un abbassamento di quota sostanziale. Quando uscirono dalla turbolenza, entrambi i piloti si accorsero di essere a pochissimi metri dalle rocce delle Ande. Le manovre di recupero furono inutili e l’aereo si schiantò contro un ghiacciaio.

I sopravvissuti e le difficoltà dopo il disastro aereo delle Ande

Dopo l’impatto morirono dodici persone, mentre altre erano gravemente ferite. Fra i giocatori di rugby c’erano alcuni studenti di medicina, che cercarono di fare ciò che potevano per salvare proprio i feriti, ma durante la prima notte, per via della mancanza di attrezzatura medica e soprattutto del clima rigido (si arrivava anche  a -30 °C), morirono altre cinque persone. I 28 sopravvissuti cercarono di far fronte alla situazione.

All’inizio, nonostante tutto, i sopravvissuti erano ottimisti. Il motivo è che, prima di morire, il copilota Lagurara disse che avevano sicuramente superato Curicò, cosa che convinse tutti di trovarsi in una zona pedemontana in Cile, a un’altezza circa 2000 metri, e di essere facilmente raggiungibili dai soccorsi. Intanto, iniziarono a creare un riparo abbozzato usando sedili, lamiere, neve e fili metallici. Realizzarono anche delle racchette da neve con le fodere dei cuscini e trovarono una radio a transistor che riuscirono a rimettere in funzione: non potevano mandare segnali, ma restarono informati costantemente sullo stato delle loro ricerche.

Crearono dunque un sistema per far sciogliere la neve e dissetarsi e ancora, divisero le scarse risorse alimentari che consistevano in nient’altro che otto tavolette di cioccolato, una scatola di cozze, tre vasetti di marmellata, una scatola di mandorle, alcuni datteri, caramelle, prugne secche e diverse bottiglie di vino. Il capitano della squadra di rugby, Marcelo Perez, divenne il leader dei sopravvissuti e razionava tutto con cura, ma ciò non bastò. I sopravvissuti cercarono vegetazione o animali, ma sul ghiacciaio e sulla montagna non c’era nulla.

Dopo una settimana, le scorte erano finite e, per disperazione, i sopravvissuti mangiarono alcune parti di sedili, pelle e cotone, con il risultato di stare male. L’undicesimo giorno, la radio trasmise una notizia che gettò tutti nello sgomento: le loro ricerche erano state interrotte.

Disastro aereo delle Ande: la decisione più estrema

Sfiniti, stanchi e fiaccati, i sopravvissuti iniziarono a piangere. Fu un sopravvissuto, Gustavo Nicolich, a prendere in mano la situazione, urlando ai compagni: «Hanno smesso di cercarci, ma ehi, è una buona notizia. Vuol dire che ce ne andremo da soli». Questo strano ottimismo infuse ai compagni un po’ di speranza. Nicolich, però, come gli altri, credeva di essere in una zona pedemontana e non aveva idea di quali difficoltà dovessero affrontare.

Tuttavia, nonostante questo, c’era una decisione da prendere, la più terribile. I sopravvissuti erano spompati, privi di energie e non avevano cibo. I soccorsi erano stati sospesi e non sarebbero mai andati lontani senza nutrirsi. Iniziarono a confrontarsi sulla possibilità di mangiare i corpi morti. La discussione durò altri due giorni. Si ridussero quasi fino all’agonia pur di trovare una soluzione, ma alla fine non ebbero scelta. Il gruppo è sopravvissuto optando collettivamente per il cannibalismo.

Il salvataggio dei sopravvissuti del disastro aereo delle Ande

Per i 28 sopravvissuti, purtroppo, i drammi non erano finiti. Il 29 ottobre una valanga travolse i resti dell’aereo che usavano come riparo, uccidendo altre otto persone, compreso il leader Marcelo Perez e Gustavo Nicolich. Le 20 persone rimaste erano intrappolate con i morti all’interno della fusoliera e mentre scavavano per uscire dovettero consumare parte dei corpi delle persone appena defunte.

Uscendo dall’aereo, le persone rimaste erano ormai senza speranza: le condizioni estreme erano causa di malesseri invalidanti tanto che nessuno riusciva a percorrere distanze che non fossero brevi. Il 15 novembre, altre tre persone morirono per il freddo e per alcune infezioni. Con le ultime forze e comprendendo che sarebbero comunque morti, dunque, i sopravvissuti decisero di scegliere un gruppo persone per un ultimo disperato viaggio.

Il viaggio, però, fu più di uno. A partire furono Nando Parrado, Roberto Canessa e Antonio Vizintin, ma Vizintin dovette a un certo punto restare all’accampamento. Il 20 dicembre, dopo un viaggio di una settimana, estenuante e doloroso, Parrado e Canessa incontrarono i primi segni di presenza umana. Erano, però, distrutti e si fermarono: Canessa, addirittura, si stava abbandonando alla morte.

Ma il destino aveva per loro in serbo qualcosa di diverso: i due incontrarono il mandriano Sergio Catalán. Quell’incontro permise di allertare le autorità che, seppur con difficoltà, riuscirono a salvare gli ultimi sopravvissuti: all’accampamento ne erano rimasti 14, dopo le ultime fiaccanti notti fredde. In seguito a un difficoltoso recupero per mezzo di elicotteri, furono trasportati in ospedale. Ancora oggi, i sopravvissuti tornano annualmente nel luogo del disastro, per ricordare e omaggiare chi non c’è più. Questa incredibile storia è stata raccontata in diversi libri, come Tabù di Piers Paul Read o dallo stesso sopravvissuto Nando Parrado nel libro Settantadue giorni. La vera storia dei sopravvissuti delle Ande e la mia lotta per tornare, da cui è stato tratto il film Alive.

Tabu'
- La vera storia dei sopravvissuti sulle Ande (Piers Paul Read)

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