Nonostante il fervore incrollabile delle organizzazioni femministe, femminili e ora anche di quelle maschili, la cruda verità persiste inesorabile: in Italia, il sinistro flagello dei femminicidi continua a mietere vittime senza tregua. Nonostante il crescente clamore che circonda l’argomento e i tentativi di scuotere le fondamenta dell’immaginario culturale che lo sostiene, i numeri non accennano a diminuire.
Questo fenomeno non risparmia nessuna classe sociale o fascia d’età, dimostrando che la violenza di genere è una piaga trasversale che colpisce indiscriminatamente. La radice di questo male va cercata nella cultura patriarcale che permea ancora profondamente il nostro tessuto sociale. Un’idea distorta di mascolinità, un veleno che in alcune realtà ancora persiste.
È raggelante constatare come per anni la società italiana abbia idealizzato e glorificato l’immagine del maschio forte e autoritario come epitome suprema della virilità, una visione che ha permeato i suoi strati più profondi per decenni. Un esempio lampante dell’estensione radicata di questa mentalità tossica si può trovare nella legge dell’Ius Corrigendi, che ha gettato un’ombra cupa sul Codice penale italiano fino agli anni ’50. Questa normativa conferiva al marito il potere di “educare” la moglie e i figli attraverso l’uso della violenza, legittimando così gli abusi domestici sotto il pretesto dell’autorità paterna. Una vergogna legale che ha protetto gli aguzzini e condannato le vittime alla sofferenza e al silenzio. Tali pratiche non solo erano tollerate, ma addirittura celebrate come vanto pubblico, evidenziando il marciume che ancora infesta parte del nostro panorama sociale.
Indice
Le radici profonde della violenza di genere nel sistema giuridico italiano
Il cammino verso la parità di genere in Italia è costellato di ostacoli, ritardi e compromessi, un’odissea legale che ha visto la luce solo attraverso la resistenza di coloro che hanno combattuto contro un sistema ingiusto e obsoleto.
Per un’eternità, la società italiana ha avallato la subordinazione delle donne, relegandole al ruolo di mere appendici del “capo-famiglia”, dapprima il padre e poi il marito. Questo status quo ha normalizzato e persino giustificato la violenza domestica, considerandola parte integrante della quotidianità, un male necessario per mantenere l’ordine sociale.
Il nostro sistema giuridico, altrettanto colpevole, ha lungamente promosso valori distorti, cullando un immaginario patriarcale che ha contaminato la nostra storia.
Un tragico ritardo storico
Solo nel 1956, la Corte di cassazione ha finalmente gettato via una delle più oscure reliquie della barbarie: il diritto del marito di esercitare violenza fisica sulla moglie e sui figli, eliminando così un’aberrazione legale che ha lasciato cicatrici profonde nella nostra società.
Successivamente, verso la fine degli anni ’60, la Corte costituzionale ha finalmente riconosciuto l’ingiustizia dell’articolo 559, una norma che puniva esclusivamente l’adulterio della moglie, ignorando completamente le trasgressioni del marito. Un piccolo (seppur importante) passo avanti verso l’uguaglianza giuridica dei coniugi.
Tuttavia, solo dopo decenni di lotte e sacrifici da parte del movimento femminista degli anni ’80, gli scricchiolii del Codice penale hanno finalmente messo fine all’orrore dell’impunità nel 1996, quando il reato di violenza sessuale fu finalmente trasferito dal Titolo IX, riservato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, al più adeguato Titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona. Un’eternità di silenzio complice e imperdonabile, che ha condannato innumerevoli donne alla sofferenza e alla paura.
L’eredità patriarcale: una ferita profonda
Nonostante gli sforzi per sradicare l’immaginario patriarcale dalle istituzioni legali e giudiziarie, il suo fantasma continua a devastare i meandri della società, alimentando comportamenti che perpetuano disuguaglianze e ingiustizie di genere.
La battaglia per la parità di genere è lontana dall’essere vinta. È un conflitto quotidiano che si gioca nei luoghi di lavoro, nelle strade, nelle case, e talvolta anche nelle aule di giustizia. Un caso emblematico è emerso nel 2018. Nelle aule di un tribunale torinese, una sentenza ha scosso le coscienze, conferendo al marito il diritto di infliggere violenza alla propria moglie in circostanze da lui giudicate “particolari“. Una decisione che ha rievocato i tratti più oscuri del patriarcato, permettendo a un’oppressione maschile di risorgere e proliferare.
Oggi, il concetto di ius corrigendi si articola come il legittimo diritto dei genitori di impiegare forme di correzione e di imporre limiti alla libertà personale dei propri figli, pur senza ricorrere alla violenza, quando ciò risulta essenziale per il loro processo educativo. Eppure, nonostante gli sforzi per riconoscere una pratica più consapevole e rispettosa, la persistenza di questo diritto nell’immaginario collettivo continua a essere accettato e addirittura difeso in alcuni contesti sociali. È un sintomo dell’immensa strada che ancora dobbiamo percorrere per liberarci da queste catene e chiamarle per quelle che sono veramente: una violenza, una forma di prevaricazione maschile subdola e vigliacca, che avvelena le relazioni familiari e mina il fondamento stesso della nostra società.