Il ladro di Scarabei, storia di un antieroe che racconta una Sardegna sconosciuta, affascinante e unica

Il nuovo romanzo di Vanessa Roggeri, "Il Ladro di Scarabei", è incentrato su un antieroe, un majolu. Un libro che sonda l’animo umano per raccontarne luci e ombre, proprio come la scrittrice fa parlando della sua terra

Pubblicato: 9 Luglio 2024 12:53

Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Il nuovo romanzo della scrittrice sarda Vanessa Roggeri, Il Ladro di Scarabei, è incentrato su un antieroe, un majolu. Un libro che sonda l’animo umano per raccontarne luci e ombre, proprio come la scrittrice fa parlando della sua terra. Perché la Sardegna va raccontata in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno patinati. Per poterla conoscere e amare ancora di più.

Per la prima volta nei tuoi libri  il protagonista non solo è un maschio, ma soprattutto è un personaggio negativo. Da cosa è nata questa idea?
Hai detto bene: Antino Lua, il protagonista, è un antieroe. Che mi si è presentato e ha “preteso di essere raccontato”. Quando comincia il romanzo è giovanissimo, ha solo 14 anni, ma ha già un vissuto pesante,  un passato fatto di miseria e privazioni: Antino è un majolu. Mi ero interessata a queste figure  della società cagliaritana dei secoli scorsi, retaggio della dominazione spagnola. Dei majooli se ne parla già nei documenti del  ‘600 e fino ai  primi decenni del ‘900, è una figura molto radicata in Sardegna. Simile allo studente fuori sede di oggi, venivano dalla campagna, da un contesto famigliare e sociale disagiato, i ragazzi più portati venivano ospitati nelle famiglie nobili di Cagliari e in cambio di vitto e alloggio potevano studiare così da poter arrivare alla laurea, rappresentata all’epoca dal famoso anello. Per Antino  il sogno è proprio quello di raggiungere “l’anello della legge”, e ha talmente tante cicatrici nell’anima, è talmente affamato e arrabbiato che questo sua spasmodico desiderio di emanciparsi dalle sue origini fatte di fango e polvere e di scalare il monte, ovvero il  colle dove è impianta la cava di calcare sulla cui cima sorge la villa dell’ingegnere che lo accoglie e dove ha sede la più grande necropoli punica del Mediterraneo, diventa una scalata fisica e simbolica. La sua è una disperata ricerca di un futuro migliore. E a volte quando si è così disperati e incattiviti dalla vita si possono scegliere delle vie  oscure.

In qualche modo Antino è quasi giustificato?
Diciamo che mi sono divertita a sondare tuti i lati oscuri di questo personaggio. Sono gli aspetti più profondi che appartengono all’essere umano che mi interessano, a prescindere dal genere. Mi affascinava il desiderio di Antino di andar oltre le maschere pirandelliane, che noi indossiamo sia per convenienza, sia affinché il sistema sociale famigliare o sociale possa funzionare. Soprattutto volevo sfatare certi pregiudizi radicati nella testa delle gente: pensare che chi ha sofferto, chi ha vissuto la miseria e la fame debba essere per forza una persona migliore delle altre. Così come non è vero che chi  ha avuto una vita facile, ricca, agiata e una famiglia sana e unita debba per forza essere una persona superficiale e insensibile nei confronti di chi ha avuto meno. Il romanzo si impernia su questa apparenze che crollano, su questo ribaltamento dei cliché. Spesso prende anche delle svolte improvvise facendoti capire che nulla è come sembra.

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Il ladro di scarabei
Il nuovo romanzo di Vanessa Roggeri

Nei tuoi libri la Sardegna è sempre protagonista, con le sue tradizioni, la sua superstizione ancestrale. Nella tua biografia racconti  che tua nonna ti raccontava favole e leggende sarde intrecciate alle proprie memorie d’infanzia. Quanto sei legata alla tua terra e quanto sarebbe difficile scrivere un libro non ambientato in Sardegna?
In realtà l’ho fatto. Il mio quarto libro, Il battito dei ricordi, è ambientato tra la Spagna e la Francia. Tra l’altro quel romanzo è nato prima di tutti, a dimostrazione che il mio attingere ispirazione non conosce confini geografici. Però devo ammettere che quando racconto della mia terrà è un’altra cosa: è come sentirsi a casa, è un conoscere profondamente l’argomento che non è comunque garanzia di riuscita, anzi. Perché attenzione: la Sardegna va trattata con grande consapevolezza e raccontata in tutti i suoi aspetti, anche e soprattutto le ombre, gli aspetti meno conosciuti, che sono al di fuori delle cartoline patinate facilmente immaginabili e radicate nella fantasia comune. Raccontare la Sardegna significa conoscerla e questo sentimento si accresce ogni volta che sono impegnata nella presentazione dei miei romanzi. Quando giro la mia terra in lungo e in largo si rinnova questo innamoramento per la mia isola. Parliamo di  377 comuni, 377 isole nell’isola, ognuna con una propria identità e fortemente diversificata.

Ne Il cuore selvatico del ginepro, la protagonista era una coga, in Fiore di fulmine Nora è una bidemortos, qui Antino è un majolu. Sono sempre i particolari, i diversi, a esercitare fascino nei tuoi libri?
Sì, perché penso che la verità del nostro essere si nasconda in ciò che è meno noto, evidente, plateale, in tutti quegli aspetti “diversi” che rappresentano le nostre peculiarità. Essendo isolana, sono cresciuta in un contesto che storicamente e geograficamente ha vissuto una italianità propria, una italianità che è in primis “sardità”, per questo tendo a sondare quegli aspetti della storia della società e dell’essere umano che sono peculiari, particolari. Mi piace portare questi dettagli meno noti e conosciuti all’interesse del lettore. Stimolare curiosità, attraverso una lettura che riesca ad essere coinvolgente, piacevole e veicolo di forti emozioni. Per me la scrittura è tutto questo.

Il cuore selvatico del ginepro
. L'appassionante romanzo famigliare di Vanessa Roggeri

Il corallo per Regina, lo scarabeo per Antino e Asmara: nei tuoi libri ci sono sempre degli oggetti simbolici portatori di fortuna. Anche questo è un retaggio culturale della Sardegna?
Hanno a che fare con la Sardegna ma anche con i popoli di tutto il mondo: si tratta dei cosiddetti archetipi, simboli forti che arrivano da un passato remoto ma che sono ormai sedimentati dentro di noi, nel profondo. La parte di noi collegata al passato più ancestrale. Mi piace  questa forma di narrazione, che comprende simboli forti, antichi e misteriosi.

Il corallo è simbolo della Sardegna, ma perché proprio  lo scarabeo in questo libro?
Lo scarabeo si collega alla civiltà egizia e a quella punica, ma soprattutto al passaggio tra  la vita e la morte, perché veniva posto  sopra il petto dei defunti affinché aiutasse nel processo di trasformazione da essere vivente ad appartenente al regno morti. Lo scarabeo significa trasformazione e rinascita. Ed è proprio quello che fanno i miei personaggi, soprattutto Asmara. Lei è complementare ad Antino e dimostrerà nel libro cosa significhi compiere una parabola ascendente, evolutiva, verso una versione più forte di se stessa. Asmara è schiava di tutte le sue paure che derivano dal suo passato doloroso, e può fare solo due cose: o soccombere a queste paure o sollevarsi . Per questi motivi lo scarabeo ha un significato profondo.

I tuoi libri sono sempre ambientati nel passato. Ti affascina di più raccontare un tempo lontano, permeato di credenze?
Raccontare il passato non significa raccontare qualcosa di staccato e lontano da noi, tutt’altro. Nel caso della Sardegna raccontare un passato recente, come in questo libro, dagli inizi del ‘900 agli anni ’40, è raccontare una storia che ci appartiene ancora molto. E raccontare il passato è indispensabile per capire le ragioni  del nostre presente, del nostro isolamento, del nostro essere sardi, dell’attaccamento alla nostra terra, cultura e folklore.

Di solito quanto ci metti a scrivere un libro?
Escluso il lavoro di ricerca, la stesura per questo romanzo durata appena 4 mesi, è stata un scrittura viscerale, di pancia. Quella che i lettori leggono è la prima versione, non c’è stata riscrittura. È stata una storia molto meditata interiormente prima di essere iniziata poi è fluita di getto.

Nei giorni scorsi si è tenuto il premio Strega: cosa ne pensi del libro che ha vinto, L’età Fragile di Donatella Di Pietrantonio?
Mi piace molto, ho letto  l’Arminuta e Borgo sud, ed è una scrittrice che pondera ogni parola. Cerca l’originalità in ogni frase, si sente che la sua è una scrittura consapevole. Nell’Arminuta per esempio è stata contenuta nell’esprimere l’emozione dei personaggi  perché se avesse spinto di più sarebbe stato eccessivo. È riuscita a dosare la parte emozionale con una scrittura che tenesse perfettamente le redini della storia.

I tuoi gusti da lettrice?
I miei gusti sono onnivori, ho cominciato da adolescente coi fantasy. Mi sono innamorata a 13 anni d di Terry Brooks, di tutto il ciclo di Shannara. Sono partita da lì per poi conoscere i classici: Jean Austen, tutta la sua produzione a partire da Orgoglio e Pregiudizio, poi le sorelle Bronte. Cime tempestose per esempio mi ha insegnato a lasciare liberi i personaggi, le passioni, a non porre freni. Perché più lasci liberi i personaggi e più risulteranno veri. Da ogni classico, da Oscar Wilde, Pirandello, ho assorbito qualcosa. Senza dimenticare la produzione dei “commercialoni”, per dire, dei grandi libri contemporanei, anche loro indispensabili. Un nome su tutti: Stephen King, che è un maestro non tanto nello scrivere storie horror quanto nel creare personaggi veri. Sono comunque figlia del mio tempo , della cultura pop, quindi fin dalla infanzia ho assorbito anche da altri canali di comunicazione che per forza di cose hanno influito  sulla mia capacità di immaginazione e di vedere il modo: tv, fumetti, cartoni, radio, giornali, riviste. Questo non si può dimenticare se si vuole essere  uno scrittore del proprio tempo.

Siamo a luglio: se dovessi consigliare a chi è in procinto di partire per le vacanze un posto meno turistico, più selvaggio e vero della Sardegna, cosa consiglieresti?
Intanto tanti turisti vengono in Sardegna e non passano nemmeno da Cagliari, vanno direttamente nelle zone più rinomate di mare. Ecco, consiglierei di partire proprio da qui, da questa capitale culturale e ricca del Mediterraneo, a cominciare da Tuvixeddu, che è un parco archeologico di importanza non solo sarda: è una delle più importanti necropoli puniche del Mediterraneo. Lì si può assistere a qualcosa di straordinario: migliaia di tombe, un monte sacro che va assolutamente visitato. E poi tutta Cagliari: dal castello, che ha una luce che non si trova da nessuna altra parte al centro storico. Da lì si può risalire a Nora, Tharros, lungo tutta la costa che arriva ad Alghero, con i suoi bastioni. Infine, caldo permettendo, andrebbe fatta una visita all’interno della Sardegna, che offre degli scorci non soltanto di foreste di querce, lecci e macchia mediterranea intricata e straordinaria, ma anche delle esperienze incredibili  a contatto con allevatori che ospitano e permettono di mangiare con loro. La zona della Barbagia è incredibile, così come i archeologici straordinari dell’interno come la zone di Tiscali. E poi ci sono anche le zone di mare meno note ma bellissime: ognuna con la propria peculiarità, isole nell’isola, proprie sfumature anche culinaria. Si può e si deve visitare la Sardegna con tutti i sensi, perché il paesaggio non solo è straordinario, ma ogni luogo è legato ad una leggenda. Senza dimenticare la Sardegna di Grazia Deledda, con la visita alla sua casa museo a Nuoro, con i cimeli della sua vita. Oppure Galtellì  dove è ambientato Canne al vento, o ancora  il borgo di Lollove (piccolo paesino in provincia di Nuoro con soli 15 abitanti), recentemente inserito tra i borghi più belli d’Italia. Per non parlare dell’isola di Carloforte. Non basterebbe una sola intervista.

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