Cos’è il genio? Una domanda così semplice a cui cerchiamo di dare risposta da secoli. C’è il genio artistico come può essere quello di Leonardo da Vinci autore di intuizioni che hanno precorso i tempi, ma anche il genio letterario come quello di Pasolini, uno degli scrittori più influenti del novecento oppure nel campo della fisica il genio per eccellenza di Einstein. Pur riconoscendo in loro una luce speciale, difficilmente riusciamo a non associargli concetti come sregolatezza, caos e follia.
Proprio quest’ultima parola formata da due sillabe, se utilizzata in maniera arbitraria, può determinare per sempre il destino di una persona. Alda Merini ha vissuto sulla sua pelle il marchio della follia e di come la genialità possa essere un’arma a doppio taglio se non viene compresa da chi ci circonda e che in realtà dovrebbe proteggerci. Fortunatamente, però, c’è stato qualcuno che ha creduto in lei, il dottor Enzo Gabrici, neuropsichiatra che ha contribuito in maniera decisiva alla sua guarigione e “liberazione”.
Le prime difficoltà di Alda Merini
Nata nel 1931 a Milano, cresce in fretta a causa della guerra, con la madre e il fratellino è costretta a scappare a Vercelli per mettersi in salvo dai bombardamenti. Una volta terminato il conflitto, la famiglia si riunisce e nonostante le ristrettezze economiche la vita di Alda Merini sembra andare a gonfie vele.
A scandire le giornate c’è la sua amata penna da cui nascono le prime poesie, già a 15 anni, si fa notare per i suoi scritti e le sue opere recensite dallo scrittore e poeta Giacinto Spagnoletti. L’entusiasmo del giornalista, non incontra quello del padre che si oppone fermamente alla carriera della figlia. I contrasti in famiglia provano profondamente Alda, tanto che nel 1947, a 16 anni, entra per la prima volta nella clinica psichiatrica Villa Turro con la diagnosi di un disturbo bipolare.
Un matrimonio sbagliato
Uscita da manicomio, la fame di sapere non si arresta e accompagna ogni sua giornata. Le poesie sono la sua valvola di sfogo e lo saranno ancora di più dopo il matrimonio con Ettore Carniti, un panettiere sposato nel 1953 e da cui avrà quattro figlie.
Fin da subito tra i due nascono accesi contrasti dovuti a caratteri totalmente diversi, la poetessa ama la cultura, è curiosa e sensibile, Ettore invece non apprezza le passioni della moglie. Solo sotto un aspetto vanno d’accordo, la tenacia e la determinazione che emerge nel modo peggiore durante le loro litigate. Ed è proprio dopo una violenta lite, che Ettore decide di farla internare al manicomio Paolo Pini di Milano.
Alda vive quella decisione come un tradimento difficile da accettare soprattutto se a tradire è la persona che ama più di tutti, nonostante i loro contrasti. In una notte del 1964 la Merini entra per la prima volta nel manicomio e ci rimane fino al 1972. Questi sono anni difficili per la poetessa, in cui subisce umiliazioni, maltrattamenti, viene sottoposta a elettroshock e barbiturici, privata di ogni umanità, ma soprattutto di quello che le aveva sempre permesso di andare avanti e di trovare la forza in sé stessa: la scrittura. Da sempre prolifica, quelli sono anni in cui Alda è bloccata e non riesce più a scrivere.
La salvezza grazie al Dottor Gabrici
Nel periodo più buio della sua esistenza, Alda riesce a intravedere la salvezza da sé stessa e da quella situazione dopo l’incontro con il dottor Gabrici, primario dell’istituto Paolo Pini, che si può dire le abbia salvato la vita, perché ha visto in Alda il fuoco della conoscenza che da sempre l’animava.
Sarà la sua gentilezza a colpire fin da subito la scrittrice:
“Un giorno un medico comparve nella nostra sala. Era ben vestito, aveva modi educati, e mi guardò a lungo. Era anche un bell’uomo. Mi domandò chi fossi. Ma non gli risposi.”
Così Alda Merini ricorda il primo incontro con il Dottor Gabrici nel libro L’altra verità. Diario di una diversa, un’autobiografia in cui narra i dieci anni vissuti all’interno del manicomio.
È solo grazie allo psichiatra che Alda inizia un percorso di guarigione e a risolvere i suoi problemi interiori. Sempre nell’autobiografia ricorda l’inizio di quella che si rivelerà la sua strada verso la libertà lontano dalle mura del manicomio:
“Vuoi venire nel mio studio?” mi disse. Io annuii e cominciò la cosiddetta “psicoterapia”, fatta con lui e con estremo amore da parte di quell’uomo, che forse fu il mio salvatore”.
Il dottor Gabrici sa perfettamente che Alda non è adatta a quel posto, ha dentro di sé una passione ardente che in quegli anni si era solo sopita, ma non era assolutamente scomparsa. È stato lui ad incoraggiarla ad esprimere il suo Io interiore attraverso la scrittura e a fornirle il mezzo di cui aveva bisogno:
”Un giorno senza che io avessi detto mai niente del mio scrivere, mi aperse lo studio e mi fece una sorpresa: “Vedi – disse – quella cosa là? È una macchina da scrivere”.
La incoraggia quindi a scrivere nuove poesie e poco alla volta la sua vena artistica riemerge, e, come raccontato dalla Merini, il dottor Gabrici la rieduca alla letteratura, “l’unica fonte di vita alla quale potevo aggrapparmi per non morire”.
La riconoscenza verso il Dottor G.
Alda Merini era una donna con una sensibilità fuori dal comune, oltre che determinata e coraggiosa, che andava di pari passo con la sua vena artistica e questi sentimenti si scontravano con una vita familiare (prima con il padre, poi con il marito) che non era adatta a lei, ma a cui aveva cercato di adattarsi fino a quando non ne era rimasta schiacciata.
Ed è stato proprio il genio dell’arte così incomprensibile, a salvarle la vita ma anche e soprattutto la sensibilità di un dottore che aveva capito le sue esigenze.
Come meglio sapeva fare, la Merini ha espresso tutta la sua gratitudine scrivendo una serie di scritti, poesie esortazioni o semplici pensieri indirizzati al dottor G., come lo chiama nelle lettere, ritrovate dopo trent’anni e raccolte nel libro “Lettere al Dottor G.” Alcuni degli scritti risalgono al periodo in cui si trovava nel manicomio, altre quando era stata dimessa dall’istituto, ma continuava le sedute con il dottore.
Sono lettere piene di amore, dedizione e riconoscenza, a dimostrazione dell’affetto reciproco tra i due, un sentimento talmente forte da spingere la Merini a tenere tutto questo materiale per sé e non spedirlo mai al mittente. Il ruolo del Dottor G. Non è stato soltanto quello di prendersi cura di Alda Merini, ma di farla sentire importante, degna di attenzione e pronta a compiere il passo finale verso la guarigione.