Una storia intrisa di stereotipi e di intrinseca violenza di genere, che pur avendo un “lieto fine” ci impone di riflettere sulla posizione del genere femminile nella storia e oggi: l’accesso delle donne alla magistratura in Italia è un capitolo particolarmente tortuoso, che parte da una legge tragicamente intransigente e si conclude con quella che è stata certamente una vittoria, ma che conserva ancora oggi un retrogusto amaro.
Fino ai primi anni Sessanta le donne non potevano essere magistrate. Come riporta il libro di Eliana Di Caro, Magistrate Finalmente, era diffusa l’opinione che il genere femminile fosse troppo impreciso e sentimentale: a rendere chiara la posizione dei tempi sull’argomento è una frase da brividi del presidente onorario della Corte di Cassazione Eutimio Ranelletti, che nel 1956 disse che «la donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica […] e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti».
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Perché le donne non potevano essere magistrate?
Se le parole di Ranelletti non fossero già abbastanza desolanti, c’è da aggiungere un altro triste tassello alla storia. Non era solo il parere personale e/o isolato dei singoli uomini a impedire alle donne l’accesso alla magistratura, ma anche la legge. L’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 precisamente, escludeva le donne dalle professioni e dagli impieghi implicanti poteri pubblici o giurisdizionali. Vietava loro, inoltre, l’esercizio di diritti, potestà politiche o responsabilità attinenti alla difesa militare dello Stato.
La legge del 1919 elencava una serie di ruoli che dovevano essere preclusi alle donne: magistrato, ma anche ministro, ufficiale giudiziario, cancelliere, prefetto, diplomatico o direttore generale presso ogni dicastero. I bandi per queste posizioni presentavano sempre e solo le seguenti condizioni: i partecipanti dovevano essere «cittadini italiani, di razza italiana, di sesso maschile».
Le prime magistrate italiane
Il fatto che queste condizioni fossero estensione del volere di un regime che auspicava e foraggiava il relegamento della donna al ruolo di moglie e mamma fu una delle ragioni (se non la principale) per cui il processo di accesso alla magistratura per le donne fu lungo e tortuoso. Solo nel 1960, con la sentenza n. 33, la Corte Costituzionale dichiarò illegittimi tutti i requisiti indicati nella legge n. 1176 del 1919, dichiarandoli incompatibili con quelle che erano le nuove leggi in materia di diritti e di potestà politiche.
Con una sentenza storica, la Corte Costituzionale riconobbe e invocò il diritto all’eguaglianza, ma la rivoluzione non avvenne subito: la svolta decisiva si ebbe ben tre anni dopo, con la legge n. 66, 9 febbraio 1963, che recita che «la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera».
La legge succitata abrogò quella del 1919, pur non cancellando un’impronta bruciante e dolorosa: dall’entrata in vigore della Costituzione erano trascorsi quindici anni e si erano svolti ben sedici concorsi dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Il primo concorso al quale poterono accedere poi non fu un successo, dato che nessuna donna superò la prova. Solo dal 1964 le donne iniziarono a vincere e superare l’esame, facendo la storia.
Tra loro c’erano Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli e Letizia De Martino. Quest’ultima, a 27 anni, sposata e madre di due bambini piccoli, diventò la prima donna giudice d’Italia e smentì categoricamente il diffuso pensiero che una donna coniugata e madre non potesse svolgere incarichi di rilievo e responsabilità.
Le donne in magistratura oggi
Se è vero che nel 1963 le donne hanno raggiunto un importante traguardo, è altrettanto vero che, ancora oggi, la situazione in magistratura non ha raggiunto un punto d’equilibrio. Pur superando gli uomini per numero di magistrati (una ricerca del CSM risalente a marzo del 2023 lo mostra chiaramente) le donne continuano a essere meno presenti nelle posizioni decisive. Il genere femminile, infatti, “colleziona” meno incarichi semidirettivi e direttivi e sono ancora molto poche quelle che riescono ad accedere al Consiglio Superiore della Magistratura.
Si registrano, inoltre, troppi pregiudizi sessisti e molti stereotipi, limitanti per l’avanzamento della carriera femminile e per tutto ciò che implica l’assegnazione di mansioni di alta responsabilità. Purtroppo, dunque, la verità è che il cammino da fare in questo ambito è ancora lungo: le donne dovranno continuare a lottare per vincere archetipi culturali resistenti prima di poter (davvero) dire di avere raggiunto la parità.