Ti chiede l’amicizia, chatta con te, sembra l’uomo ideale. Tu gli apri il tuo cuore. A quel punto, quando sei cotta a puntino, quando ti svegli la mattina e la prima cosa che pensi è al suo primo messaggio, quando sogni a occhi aperti il giorno in cui finalmente lo incontrerai, lui colpisce e affonda. Arriva dove voleva arrivare, ovvero a chiederti dei soldi.
Inventa le scuse più assurde: è in un momento di difficoltà, gli hanno bloccato il conto per un problema burocratico, si trova in un Paese straniero e gli hanno rubato le carte di credito. Cosa dovresti fare a questo punto? Non provare nessuna vergogna, non sentirti in colpa per esserci cascata: denuncia. Si tratta di una truffa. Una truffa affettiva.
«È un’associazione, è vero. Ma a me piace definirlo un movimento, perché in effetti non ci fermiamo mai». È con queste parole che Jolanda Bonino ci parla di ACTA, la sua personale battaglia contro le truffe affettive e la lotta al Cybercrime che oggi è diventata una battaglia condivisa. Ma a quei tempi, 7 anni fa, lei non lo sapeva che non era sola.
Perché in Italia ancora nessuno ne parlava, perché gli amici la schernivano per quelle ore trascorse a parlare in chat con uno sconosciuto e le forze dell’ordine non la prendevano sul serio. “Perché perdi tempo a chattare? Esci e incontra le amiche”, le dicevano. Senza sapere che ormai era troppo tardi, perché la sua anima era già plagiata.
E poi ne è uscita, Jolanda Bonino. Si è liberata da quei mostri, da quei mangiatori di anime e ha fondato l’associazione ACTA, mettendoci la faccia. Lei stessa, infatti, si definisce la prima vittima italiana certificata da truffe affettive. Così l’abbiamo raggiunta telefonicamente ed è in questa occasione che, come un fiume in piena, ci ha raccontato la sua storia. Con una raccomandazione, però, quella di non chiamarle truffe romantiche, perché di romanticismo non c’è n’è neanche l’ombra.
«Mi credevo furba – ci racconta – non pensavo potesse accadere a me, anche se a quei tempi chi poteva immaginare che grazie alla tecnologia e ai software innovativi si potessero animare delle fotografie! Cioè rendiamoci conto che io mi truccavo e mi facevo bella per incontrarmi su Skype con una fotografia!” – inizia così il racconto di quel dramma sentimentale che Jolanda ha vissuto in prima persona nel 2014, cadendo nella trappola di quelli che lei stessa definisce mangiatori di anime – ho una certa esperienza di vita, ho fatto pure la sindacalista, insomma, ho le antenne dritte. Eppure ci sono cascata».
Così Jolanda, con il suo incipit, annulla tutti gli stereotipi della donna fragile e ingenua, quella raccontata dai media ogni qualvolta si parla di truffe affettive. Perché il retaggio culturale della società patriarcale passa anche da questo. Perché colui che truffa, è il furbo della situazione, mentre colei che viene truffata è il sesso debole. Perché poi è facile giudicare una donna, soprattutto se in età matura, che si è innamorata su internet, che ha ceduto ancora alla favola del principe azzurro. Perché chi ci crede più, adesso?
Giudizi, critiche e dinamiche, queste, che si intersecano inevitabilmente con il maschilismo che contraddistingue la nostra società e che queste truffatori conoscono bene, portando le vittime a sentirsi sbagliate. E invece nessuno dovrebbe permettersi mai di mettere un filtro alla speranza dell’amore.
Ma Jolanda non si sente sbagliata e non si vergogna di esserci “cascata” anzi, la sua strategia è proprio quella di metterci la faccia. E la sua storia, lei, ce la racconta con il sorriso e oseremo dire anche un po’ di entusiasmo, perché ci sembra evidente che è quello il sentimento univoco che caratterizza la sua vita, trascorsa a salvare le altre donne. Un obiettivo che tra l’altro è suo da da sempre, lei che è femminista e sindacalista, instancabile battagliera dei diritti degli altri, e oggi guida e volto di ACTA.
Jolanda, quando è nato ACTA?
Da 7 anni. Dopo la mia disavventura, iniziata nel 2014. A quei tempi nessuno parlava di truffe sentimentali e nonostante nutrissi nei dubbi rispetto a questa conoscenza sul web, ho intrapreso questa relazione affettiva che mi ha aperto un mondo, tremendo e brutale, ma reale.
Ti va di raccontarci la tua storia?
A quei tempi lavoravo sul web, mi occupo di diffondere comunicati stampa. Arriva quest’uomo, di 15 anni più giovane di me, e mi chiede l’amicizia. Iniziamo a chiacchierare, mi sembra piacevole, ma soprattutto mi sembra un’ottima occasione per rispolverare e migliorare il mio francese. Mi sono detta “cosa potrà mai succedermi?”. Stavo solo chattando e videochiamando da casa mia, il luogo nel quale mi sentivo più al sicuro. E invece stavo peccando di ingenuità. Abbiamo iniziato a parlare e i giorni sono diventate settimane, le settimane mesi. Lui appariva come l’uomo perfetto, di sani principi, sempre presente e attento, ormai mi ero affezionata e lui lo sapeva. Perché loro fanno così, quando scoprono che sei cotta e hai sviluppato una dipendenza affettiva, mettono in piedi il loro show.
Loro? Non era uno solo?
No, assolutamente. Dietro a questo fantomatico principe azzurro c’è una squadra di esperti, almeno cinque o sei. Utilizzano più o meno gli stessi copioni, circa una dozzina, e li modellano in base alla sensibilità e al background culturale della vittima. Sanno tutto di noi. Perché cercano informazioni sul web, rubano i profili, e sanno dove colpire. Poi, scelgono una foto, rubata, e creano il principe azzurro rimodellato in base ai tuoi desideri.
A te è successo questo?
Sì. Pensi che quando ho denunciato la truffa ho scritto sul verbale che ero ancora innamorata di lui.
E lo eri davvero?
Sì, e non solo. Nonostante ero consapevole che quella persona non esistesse realmente e che anzi, fosse stata costruita ad hoc per me, per truffarmi, ho continuato a spiarla sui social network. E mentre vedevo che mieteva altre vittime, io ero addirittura gelosa di quelle donne. Che follia.
Poi, com’è finita?
Come finisce sempre, mi ha chiesto dei soldi. Mi ha detto che doveva partire per una missione in Costa d’Avorio e da lì sono iniziate le sue finte disavventure. Io avevo già il sospetto, così continuavo a informarmi come un’ossessa su tutto ciò che lui mi raccontava della situazione lì, e tutto sembrava estremamente reale. Poi è arrivato un furto, un’operazione urgente di appendicite – dimostrata con cartelle cliniche – e il suo desiderio di tornare in Francia. È arrivata la richiesta di denaro e dopo un primo tentennamento ho ceduto. L’ho fatto perché mi sentivo in colpa, perché lui diceva che dovevo fidarmi, che sarebbe venuto presto a trovarmi. Pensi che sono andata anche a vedere un hotel nei dintorni di casa mia per quando lui sarebbe venuto. Ma non è mai venuto.
Ne hai parlato con qualcuno?
Sì, ci ho provato. Ma più le persone mi dicevano di stare attenta o si “smetterla di chattare” più mi chiudevano a riccio. Però a quanto pare ho parlato con la persona giusta perché un mio amico, italo-francese, mi ha parlato dei brutuer, protagonisti di queste truffe sentimentali già conosciute in Francia. Insieme abbiamo fatto delle ricerche e ho trovato la fotografia di questo uomo tra quelle segnalate.
A quel punto così accaduto?
Mi sono allontanata, dopo avergli dato circa 800 euro. Mi sono allontanata gradualmente perché ero spaventata. Ma la mia esperienza non poteva essere fine a se stessa. Così da quel momento ho messo insieme un gruppo di lavoro per iniziare a divulgare perché le vittime erano troppe. Ma nessuno ne parlava, e per prime loro non denunciavano per la paura dei giudizi. Così lì ho deciso di metterci la faccia, sui media e in televisione. E piano piano sono arrivate le richieste d’aiuto.
Cosa fa ACTA?
Come le dicevo prima, anche se siamo un’associazione, a me piace definire ACTA un movimento fatto di professionisti volontari. Il nostro obiettivo principale è quello della divulgazione, e lo facciamo attraverso le ospitate in televisione e le interviste come queste. Vogliamo, soprattutto, che le vittime delle truffe affettive non si sentano in colpa e che capiscano che è loro il diritto al sentimento: perché a 60 anni, come a 40, ci si deve vergognare di avere voglia di innamorarsi? Questa è la prima cosa che dico a chiunque mi contatta: non sentitevi in colpa! Ma è difficile. Molte non riescono ad accettarlo, non vogliono crederci e diventano vittime, di nuovo, della sindrome di Stoccolma, con la speranza prima o poi di coronare il loro sogno d’amore. Dopo di che, ovviamente, aiutiamo le persone a intraprendere il percorso migliore per loro, anche psicologicamente, perché le vittime escono distrutte emotivamente da questa truffa. Ecco perché non la si può definire “romantica”. Gli spieghiamo come fare una denuncia, le invitiamo a guardare le fotografie sul nostro sito di tutti i truffatori che abbiamo scovato. Abbiamo messo anche un modulo di denuncia della truffa.
Chi sono le vittime e quante sono?
Posso dire che che le vittime mietute si aggirano principalmente tra i 45 e i 65 anni, ma in queste truffe ci cascano anche donne di 30 anni così come di 70. E hanno tutte un background culturale differenti: ci sono professoresse, imprenditrici, donne autonome. E poi ci sono io che sono un ex sindacalista. Per quanto riguarda i numeri, invece, da quando siamo in attività abbiamo registrato circa 140mila vittime e circa 140 milioni di euro inviati alle destinazioni più disparate. Queste però, nella maggior parte dei casi, vengono inviate in Nigeria, Costa d’Avorio e altri Paesi poveri dove non c’è collaborazione con le forze dell’ordine. E i soldi non bastano mai sa? C’è chi chiede prestiti ad amici e parenti, chi vende beni personali e chi, addirittura, finisce in mano agli usurai.
Hai qualche consiglio per le lettrici di DiLei?
Sì certo. Ci tengo a precisare che il modo per prevenire le truffe affettive è quello di parlare di questo fenomeno affinché le vittime non si sentano più sole o in colpa. Voglio dire a queste persone di trovare il coraggio di chiedere aiuto e di intraprendere una terapia. Di parlarne con i familiari o con gli amici, con chiunque. Perché gli altri possono salvarci.