La vittoria di Sanremo e la felicità delle piccole cose

La musica ha vinto perché dopo 2 anni di pandemia c'è bisogno di planare sulle cose con un cuore senza macigni. Leggerezza non è superficialità

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Sabato 6 febbraio si è chiusa la 72esima edizione del festival di Sanremo che mai come quest’anno ha vinto in termini di ascolti, tant’è che solo con Bonolis alla guida si erano raggiunti dei dati così alti. Viene da chiedersi che cosa abbia funzionato particolarmente, che cosa abbia convinto milioni di persone a sintonizzarsi su Rai Uno per cinque sere consecutive, aumentando giorno dopo giorno, fino al tripudio della serata finale vista da 13.380.000 di spettatori con il 64% di share.

Sicuramente l’avvento dei social ha contribuito a svecchiare un programma che fino a qualche anno fa era il preferito di un pubblico decisamente più âgée, ma un plauso va certamente fatto anche a chi, nei mesi antecedenti, ha cercato di confezionare un prodotto che potesse coinvolgere generazioni di ogni fascia d’età, mettendo in gara ragazzi giovanissimi, alcuni al loro debutto su quel palco insieme a cantanti che quel teatro lo hanno calcato dagli anni 60. Con un unico comune denominatore, la voglia di mettersi in gioco, la voglia di prendere gli applausi, il bisogno di sentire il calore di un pubblico messo in panchina da due anni di questa maledetta pandemia che ha scavato un solco profondissimo fra il prima e il dopo l’hannus horribilis, il 2020 che tanto ha tolto in termini di spensieratezza e vita nel cuore di ognuno di noi. Ecco, se proprio lo vogliamo guardare con un occhio attento il covid, è stato un alleato nella ricerca della felicità delle piccole cose, che non significa accontentarsi di quello che passa il convento, o il canone, perché con l’avvento della tv in streaming, la maggioranza di noi ha in casa le piattaforme di Netflix, Amazon prime o Disney plus, eppure ha scelto di guardare il festival.

C’è chi lo ha visto per tenersi al passo con i commenti su twitter, chi ha deciso di formare squadre di fantasanremo per tornare a giocare, scommettere e vincere con altre migliaia di persone, chi si è messo sul divano insieme a tutta la famiglia, ognuno con il proprio cantante preferito per cui fare il tifo, perché mai come quest’anno gli artisti in gara sono stati in grado di far cantare la nonna ed il nipote, chi per commentare le mise indossate, ma il minimo comune denominatore è sempre lo stesso, la voglia di staccare la testa, spengere per un attimo il cervello, e lasciare andare la voce. Che poi in realtà non è nemmeno una definizione corretta quella da me usata, perché certi testi e certi monologhi sono riusciti a far riflettere, a emozionare e a mettere l’accento su una realtà che è sotto gli occhi di tutti, una sana voglia di leggerezza, come sottolineato anche da Sabrina Ferilli, “Perché in tempi così pesanti c’è bisogno di planare sulle cose senza macigni sul cuore, perché leggerezza non vuol dire superficialità“.

E allora bentornati ai Maneskin in veste di super ospiti nella prima serata e alle lacrime di Damiano dopo l’interpretazione di “Koraline”, benvenuta all’emozione di Morandi nel calcare quel palco che lo ha visto crescere e diventare un uomo dal cuore bambino, ben arrivata a Drusilla che la con la sua eleganza, ironia ed intelligenza ha messo tutti d’accordo, anche i più scettici, mentre per quelli che mancavano di spirito critico, anche prima del suo trionfo, non c’è niente che lei avrebbe potuto fare o dire per convincerli del contrario. Mi ricordo che quando ero una ragazzina il festival di Sanremo per me voleva dire solo una cosa: super ospiti internazionali, li aspettavo come un bambino aspetta il giorno di babbo Natale, da Madonna ai Duran Duran, tralasciando la musica italiana, con i loro ritornelli che in quel momento consideravo solo trash, e che, invece, ancora adesso, con il senno di poi, mi ritrovo a cantare. Se un merito va riconosciuto a questa pandemia è stato quello di farci riavvicinare alla gioia delle piccole cose, come un palco che si riempie di persone in carne ed ossa, non più palloncini dipinti appoggiate su poltroncine con i sorrisi disegnati, cantanti straordinari capaci di far dimenticare anche solo per una sera i problemi quotidiani, generazioni a confronto che hanno contribuito a mettere in piedi uno spettacolo sincero, perché lo spettatore non è stupido, si accorge delle gag preparate e artefatte, ma percepisce quando la voglia di divertirsi e divertire è reale.

Sul podio sono salite tre generazioni che invece di farsi la guerra sono state complici, momento dopo momento, serata dopo serata, in quell’abbraccio tra Blanco e Morandi c’è tutto un mondo, in quella frase detta da quel meraviglioso diciottenne: “io da grande voglio diventare come Morandi“, c’è la stima, il rispetto e l’affetto di questi meravigliosi ragazzi che non dimenticano da dove sono partiti, né dove vogliono arrivare. Torniamo a sorridere. Torniamo a vivere. “Con le mani… E con la testa, con il petto, con il cuore Ciao ciao E con le gambe, con il culo, coi miei occhi. Ciao.”

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