Tumore dell’ovaio, un manifesto con le 7 cose da fare per renderlo curabile

È necessario un nuovo cambio di rotta nella gestione del tumore ovarico: le sette azioni prioritarie

Pubblicato: 18 Settembre 2023 15:04

Federico Mereta

Giornalista Scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica: raccontare la scienza e la salute è la sua passione. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Il 70% delle donne con tumore ovarico ha informazioni sulla sua malattia prima della diagnosi. Aumenta la conoscenza, quindi. Ma attenzione. La stessa percentuale di pazienti scopre il tumore quando è già in fase avanzata a causa di sintomi aspecifici e per la mancanza di strumenti di screening efficaci.

Questi sono solo alcuni dei risultati dell’indagine condotta da ACTO Italia su oltre 100 pazienti sul territorio nazionale e contenuti in “Cambiamo rotta”, il primo libro bianco illustrato di voci, bisogni e proposte delle donne con tumore ovarico. Il progetto “Cambiamo rotta”, presentato a pochi giorni dalla Giornata Mondiale dei Tumori Ginecologici del 20 settembre, è promosso con il patrocinio di ACTO Italia, Alleanza contro il Tumore Ovarico ETS.

Tumore ovarico e mortalità

Con il termine “tumore ovarico” si intendono tutti i tumori che originano dalle ovaie (gli organi femminili responsabili della formazione degli ovuli), dalle tube di Falloppio (che connettono le ovaie con l’utero) e dal peritoneo (il rivestimento della parete e degli organi addominali), sebbene questi siano organi differenti. I tumori ovarici vengono classificati in base alle cellule da cui originano e i più frequenti sono i tumori epiteliali. Tra i tumori ovarici epiteliali, il sottotipo più comune è quello sieroso di alto grado.

Il carcinoma ovarico è ancora oggi tra i tumori più gravi a causa della sua elevata mortalità, legata soprattutto alla mancanza di strumenti di screening o di diagnosi precoce e alla presenza di sintomi poco riconoscibili, motivi per cui viene diagnosticato in fase avanzata in circa l’80% dei casi.  Il tumore ovarico viene considerato relativamente raro: si stima che colpisca ogni anno più di 5 mila donne (5.200 nel 2020, ultimo anno per cui esistono dati) e che in Italia vi siano circa 50 mila donne viventi dopo una diagnosi.

Nella popolazione femminile è comunque l’ottava neoplasia più frequente. Può colpire a tutte le età, con un aumento dell’incidenza dopo la menopausa, tra i 50 e i 69 anni. Tende però a comparire più precocemente nelle portatrici di mutazioni a carico dei geni BRCA 1 e 2, che rappresentano circa il 25% dei casi.

Cosa protegge e chi è a rischio

Purtroppo arrivare presto con la diagnosi è difficile. I sintomi sono generici e vengono spesso confusi con quelli di altre patologie, come la sindrome del colon irritabile. I più comuni sono: gonfiore persistente dell’addome, fitte addominali, bisogno frequente di urinare, inappetenza e/o sensazione di sazietà anche a stomaco vuoto, perdite di sangue vaginali (in assenza di ciclo mestruale), comparsa di stitichezza o diarrea. Quando questi sintomi compaiono frequentemente o sono persistenti è importante rivolgersi al ginecologo.

Tra i fattori di rischio troviamo: età; familiarità per tumore dell’ovaio, della mammella, dell’utero, dell’intestino; altri tumori pregressi agli stessi organi; alterazioni genetiche ereditarie (mutazioni del gene BRCA1 possono aumentare il rischio di sviluppare il tumore di circa il 40-50%, mentre mutazioni del gene BRCA2 possono aumentarlo del 10-30%. Esistono poi alterazioni di altri geni che concorrono a definire il rischio); vita riproduttiva (menarca precoce, nulliparità, prima gravidanza in età avanzata, menopausa tardiva). Tra i fattori protettivi troviamo: assunzione della pillola anticoncezionale per un periodo di almeno 4 anni in giovane età, associata a una riduzione del 50% del rischio di malattia; gravidanze.

Un manifesto per le cose da fare

“È necessario e urgente promuovere un nuovo cambio di rotta nella gestione del tumore ovarico – spiega Nicoletta Cerana, Presidente ACTO Italia. Bisogna restare sulle strade buone che ci hanno portato fin qui, ma contemporaneamente aprire nuovi percorsi per continuare ad innovare.

Quali? Aumentare l’informazione sulla malattia e sui centri specializzati per promuovere scelte di cura più consapevoli; sostenere la ricerca per la diagnosi precoce che ancora oggi resta una chimera; aprire ai test genomici per rendere possibili le cure personalizzate; cominciare a parlare di sessualità e oncologia, un ambito di bisogni del tutto dimenticato che sta emergendo sempre più forte da parte delle pazienti. Si vive di più anche con il tumore ovarico, di conseguenza è diventato necessario prendersi cura della persona, oltre che curare la malattia”.

Il Manifesto ACTO 2.0 sintetizza le sette azioni prioritarie per migliorare la presa in carico globale delle donne con tumore ovarico ed è stato redatto a partire dall’analisi dei loro bisogni e dalle indicazioni dei maggiori clinici ed esperti in quest’ambito.

Importante sottoporsi a test genetici dopo la diagnosi

“Negli ultimi 5 anni – sottolinea Nicoletta Colombo, Università Milano-Bicocca, Direttore Programma Ginecologia, Istituto Europeo Oncologia – è accaduto quello che io definisco uno tsunami nel trattamento del carcinoma ovarico: per la prima volta siamo riusciti ad aumentare la percentuale di pazienti potenzialmente guarite. Abbiamo scoperto, infatti, il primo “bersaglio” del tumore ovarico che può essere colpito con farmaci mirati: si chiama Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD). Il deficit è presente nei tumori di tutte le pazienti con mutazioni BRCA e di un altro 25% di pazienti senza mutazioni di questi geni: quindi nella metà dei casi totali. Bisogna perciò garantire due tipi di test: quelli genetici, soprattutto a scopo di prevenzione delle persone sane, e quelli genomici sul tessuto tumorale, come il test HRD, per personalizzare le cure nelle donne malate”.

La ricerca di ACTO Italia mostra che meno della metà delle pazienti (45%) accede alla profilazione genomica. C’è inoltre ancora un 12% di pazienti a cui non è stato proposto il test genetico per le mutazioni BRCA. Ad oggi, però, solo la ricerca delle mutazioni BRCA (test genetico) è nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), mentre la ricerca di HRD (profilazione genomica) non è ancora rimborsata dal Sistema Sanitario Nazionale.

“Il rischio – sottolinea Umberto Malapelle, Chair del Laboratorio di Patologia Molecolare Predittiva, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università degli Studi Federico II di Napoli – è che non tutte le pazienti possano accedere ai test in modo uniforme sul territorio e, di conseguenza, non abbiano le stesse opportunità di cura. La ricerca, inoltre, procede molto velocemente e, a mio avviso, i LEA dovrebbero prevedere, più in generale, la profilazione genomica estesa, lasciando agli esperti la decisione di quale tipo di strategia utilizzare in relazione al quesito clinico”.

 

Sempre più disponibili cure su misura

I test rappresentano quindi un requisito essenziale per garantire a ogni paziente una strategia terapeutica personalizzata. “I risultati di questa personalizzazione – aggiunge Domenica Lorusso, Professore associato di ostetricia e ginecologia presso Università Cattolica del Sacro Cuore e Responsabile UOC programmazione ricerca clinica presso Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS – riguardano soprattutto la terapia medica e di mantenimento, e si traducono in una opportunità concreta di attingere a nuove classi di farmaci mirati e a bersaglio molecolare – PARP inibitori, immunoterapie, anticorpi farmaco coniugati – che richiedono una gestione e una presa in carico di un team multidisciplinare. Da qui l’esigenza di identificare i centri oncologici specializzati dove queste pazienti possono essere curate”. Le donne però non ne sono consapevoli: come evidenziano i dati dell’indagine ACTO Italia, infatti, solo il 27% delle pazienti, dichiara di aver scelto il proprio centro in base alla specializzazione nel trattamento del carcinoma ovarico. “Questo è un aspetto centrale soprattutto quando parliamo del trattamento chirurgico, che oggi – conclude Giovanni Scambia, Direttore UOC Ginecologia Oncologica – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma – rappresenta la terapia d’elezione in tutte le fasi della malattia: nello stadio iniziale, dove l’intervento e la chemioterapia permettono di raggiungere tassi di guarigione anche dell’80-85%; negli stadi avanzati, dove l’intervento da solo riesce a eradicare la malattia in circa il 60% delle pazienti. Solo i centri specializzati possono infatti garantire anche l’expertise dell’équipe chirurgica”.

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