Silvia Avallone: “La pandemia, l’importanza del ritorno e la scuola sempre penalizzata”

L'ultimo libro di Silvia Vallone, "Un'amicizia", diventerà una serie tv. Ci ha raccontato la sua gioia e l'eredità di questa pandemia, tra riscoperte e dolorose consapevolezze

Pubblicato: 23 Aprile 2021 09:45

Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Un’amicizia, l’ultimo bellissimo libro di Silvia Avallone, scrittrice di Acciaio, Marina Bellezza e Da dove la vita è perfetta diventerà una serie tv. L’abbiamo raggiunta per farci raccontare le sue emozioni. È nata una chiacchierata sul senso e la sfida dell’amicizia, la maternità come andrebbe davvero raccontata, tra stereotipi culturali da superare e padri che hanno finalmente voglia di fare i padri, e il valore del ritorno, alle radici, alla famiglia, evidenziato dalla pandemia. Durante la quale è stato anche palese come la scuola, i ragazzi, il nostro futuro siano ancora irrimediabilmente l’ultima delle priorità.

L’amicizia diventa una serie tv. Solo gioia o anche paura che le immagini non riescano a riprodurre il senso esatto delle tue parole?
Non  sono mai gelosa dei miei romanzi, anzi. Se possono avere nuove vite, raccontate con sensibilità diverse dalla mia, ne sono felice. Amo le mie storie e proprio per questo voglio che vivano in mezzo al mondo, nuovamente vissute.

Adolescenza, Amicizia, Amore, desiderio di Affrancarsi dalla famiglia, dalle aspettative, da destini predefiniti. Tutte queste “A” sono i temi ricorrenti nei tuoi romanzi. Ne ho tralasciato qualcuno?
Ci sono tutti! Anche se per me la molla fondamentale è sempre quella del riscatto, del cambiamento, del riuscire a muoversi dalla propria isola, periferia, provincia geografica o interiore che sia, per provare a diventare se stessi. Che è poi la grande sfida che inizia con l’adolescenza, quando cominci ad affrancarti dalla tua famiglia, dai tuoi genitori, dal tuo quartiere, e inizi a scegliere chi vuoi essere, a prescindere da quello che il destino ha deciso per te. In questo senso l’amicizia e la scuola sono quei luoghi in cui cerchi di fiorire e sbocciare anche ribellandoti al giudizio degli altri, alle aspettative della tua famiglia a quello che la società ti dice che devi sognare. Attraverso le relazioni, i viaggi, le scoperte, ma anche le perdite e i fallimenti, costruiamo la nostra vera identità, la nostra indipendenza.

Dell’amicizia hai detto: “Spesso questi legami, così forti al liceo e all’università, si spezzano quasi a indicare che ci voglia un tradimento per diventare adulti” Anche a te è capitato?
Penso che sia una esperienza universale, che riguarda tutti. Le mie più grandi amicizie, sia maschili che femminili, sono ancora quelle della quarta ginnasio del liceo Sella a Biella. Me le sono portate dietro per tutta la vita, abbiamo imparato a cambiare insieme, a sopportare che qualcuno raggiungesse determinate soddisfazioni, private o lavorative, prima di altri. In fondo un’amicizia è una sfida, un percorso, bisogna imparare ad accompagnarsi a gestire felicità e infelicità, che non sono mai contemporanee. Ci vuole molta cura e molta forza, per accettare le libertà dell’altro e gestire la propria. Che è poi l’aspetto che più amo dell’amicizia e che ha molto da insegnare ai legami famigliari e a quelli di coppia, che spesso rischiano di sconfinare nel possesso. Ma proprio perché l’amicizia è una sfida continua a volte non ce la si fa, e anche io ho perso delle amicizie. Nel mio ultimo romanzo ho approfondito proprio questo aspetto: quando perdi un amico non riesci a lasciarlo definitivamente perché un’amicizia finisce ma quella fine resta lì sospesa, tra rancore e nostalgia. E te la porti dietro per sempre.

Al centro dei tuoi libri c’è spesso la provincia, “condizione dell’anima che uno si porta dentro, sentendosi parte di una comunità e di un territorio che, se da una parte ti appartiene, dall’altra ti sta stretto. In città si è liberi, ma anche sradicati”. Oggi cosa scegli?
La pandemia ha riportato vivo e forte quel mito che ho da sempre: il ritorno. Alle proprie radici, alla provincia, nel mio caso. Anche se poi l’Italia è un po’ tutta provincia, anche le grandi città non sono vere metropoli. La stessa Bologna, città in cui vivo, ha una dimensione di comunità . È una città speciale, di mare senza mare, dove tutti arrivano per studiare e c’è un fermento culturale notevole, un’apertura agli altri, ai diversi, che amo molto, mentre la provincia è più chiusa, spaventata. Ma se penso al mio biellese penso a uno spazio di natura immenso, di capacità di reinventarsi a partire dai territori più abbandonati, dalle vecchie fabbriche chiuse. La possibilità di tornare indietro per andare avanti. Questa pandemia ha messo in discussione tanti valori: io prima ero pura cultura, ho sempre sognato di vivere a Bologna perché volevo stare vicina ai cinema, ai teatri, alle librerie e biblioteche e invece ora mi ritrovo comunque chiusa tra muri. Questa necessita del tornare indietro, di riappropriarsi della natura, degli spazi aperti, intensificata dalla pandemia, l’ho risolta personalmente cercando di tornare in provincia il più possibile. Con la pandemia ho riscoperto i miei territori, ma anche il bolognese, quello che sta intorno alla città e che non avevo mai avuto l’occasione di esplorare. Tutto questo mi ha fatto capire quanto quell’Italia provinciale, quell’Italia considerata minore, che è poi il terreno della mia narrativa, sia uno scrigno,  un forziere di storie e di bellezza inesauribile. Per questo continuerò a scrivere ambientando le mie storie in provincia.

Quando scrivevi questo ultimo libro dicevi che avevi molte paure e aspettative, perché era il libro che più ti rappresentava, quello in cui avevi fatto pace con le tue paure.
Questo libro, “Un’amicizia”, per quanto non sia autobiografico è stato uno spartiacque nella mia vita di scrittrice. Ho chiuso i conti con tutte quelle che erano state le mie ossessioni: l’adolescenza, l’amicizia, la difficoltà della crescita. Soprattutto è stato importante fare i conti con questi ultimi 20 anni, che ci hanno cambiati, attraverso la rivoluzione digitale. Fare i conti con i social, che mi hanno fatto molta paura e anche accettare a un certo punto che l’età adulta è quella in cui abbracci i tuoi limiti, accetti i tuoi difetti. Un percorso difficile, quello della conoscenza e accettazione della propria storia, ma è un passo liberatorio che tutti dobbiamo fare a un certo punto della nostra vita.

Sulla scuola in questo periodo di chiusure e pandemia, hai scritto: “Proprio dentro questa enormità dovremmo decidere cos’è la scuola, a cosa serve. Per me coincide con il luogo in cui scegli un destino anziché subirlo. La cultura è riscatto”. Forse qualcuno non lo ha ancora capito …
No, e fa male al cuore proprio perché i bambini e gli adolescenti durante questa pandemia che dura ormai da più di un anno, e da emergenza è diventata una vera rivoluzione epocale, hanno pagato il prezzo più alto. Dovevamo decidere le priorità, e per me adolescenti, bambini e scuola sono le priorità, perché nessun discorso sul futuro può essere concreto, con delle solide basi, se non si considera il fatto che quel futuro ha un volto, dei nomi, quelli dei nostri ragazzi. La scuola non è solo il luogo dove acquisisci delle conoscenze e competenze fondamentali per lavorare, pensare e decidere nella vita, ma al suo interno c’è tutto un discorso di relazioni, di consapevolezza, di educazione affettiva e valoriale che ci rende persone e cittadini sereni e maturi. Nella scuola si crea la società del domani.  E più abbiamo bambini e ragazzi sereni che crescono in maniera sana, insieme agli altri, più poniamo le basi per un futuro concreto di miglioramento  della società. Se priviamo la scuola di risorse, investimenti e coraggio rinunciamo ad un progetto importante. E noi esseri umani viviamo di progetti, non possiamo stare confinati in un presente che diventa una gabbia. Per questo mi fa male veder oggi i vecchi problemi della aule, dei trasporti, gli stessi che avevamo un anno fa, ancora lì, senza che nessuno ci abbia pensato, o li abbia risolti. E sono sempre i ragazzi a pagare.

A proposito di scuola: c’è stato un libro, uno scrittore, che ti  ha cambiato la vita e fatto realizzare che volevi vivere di questo?
Mille, io sono il risultato di una scuola a cui devo gratitudine infinita, dalla materna fino all’università. Perché davvero sono stata accompagnata con fiducia verso quelle che erano le mie passioni. Ho sempre incontrato professori e professoresse che hanno creduto in me, che vedendo che mi piaceva leggere mi consigliavano nuovi libri, che se scrivevo un bel tema mi lodavano per aumentare la mia autostima. Sono stata accompagnata per mano nella costruzione della mia identità, che ho scelto io, ma aiutata e supportata da loro. Per questo la scuola è un mondo che dovrebbe funzionare al contrario alla società dei consumi, in cui devi sempre performare, vincere, sembrare perfetto. La scuola invece dovrebbe insegnare ai ragazzi a scavare nella sostanza, capire quali sono le loro passioni autentiche. “Costruirsi” nell’anima, anziché nell’aspetto esteriore.

La nascita di tua figlia, nel 2015, ha cambiato il tuo modo di scrivere?
Diventare genitori è una rivoluzione che andrebbe raccontata in maniera diversa, perché non è solo un idillio. È un cambiamento enorme, drastico, che come tutti i cambiamenti radicali ha in sé luci meravigliose e grandi difficoltà. Per me diventare genitori è stato approdare a una realtà che non mi era mai stata raccontata così com’è realmente. Quanto è anche difficile essere genitori, nessuno mai te lo dice. Per me scrivere da allora è stato una possibilità di aumentare le domande, di raccontare la complessità della maternità e del diventare una famiglia. Da dove la vita è perfetta era incentrato sul desiderio di un figlio, sull’attesa. Da raccontare  senza i soliti veli da fiaba, mettendoci dentro la disperazione dell’esperienza di un figlio che non arriva, lo sconvolgimento del corpo dato da una gravidanza. Volevo dare un nome alla realtà di questa esperienza che non è solo una favola, ma un percorso estremamente potente, forte anche nella fragilità che si scopre dentro di noi. E  in Un’amicizia invece ho cercato di scavare nel discorso famiglia, perché diventando genitori si scopre quanto ci sia ancora da fare nella battaglia per la parità di genere proprio all’interno della famiglia. C’è una società che continua a pensare che ci sia un genitore solo, ovvero la madre, e che sia sempre lei a dover fare un passo indietro per occuparsi dei figli, rinunciando ad avere un posto là fuori nel mondo. Io da madre di figlia femmina e da figlia di una madre che mi ha sempre insegnato l’indipendenza ho capito quanto questa cultura sia inaccettabile e da superare. Questa rinuncia dei padri a fare i padri, perché chiamati dalla società a lavorare di più e stare meno a casa, così come noi siamo invece chiamate  a stare a casa rinunciando a lavorare. Una asimmetria della famiglia che va riscritta. Come tutto il discorso delle “mille principesse” che ancora vengono pubblicizzate e proposte alle nostre bambine. Siamo davvero state educate con mille stereotipi ed è arrivato il momento di liberarcene.

Non è un caso se nei tuoi libri le figure dei padri sono quasi sempre assenti o negative
Assolutamente non è casuale. Penso a contesti di periferie, di difficoltà sociale, in cui vediamo madri sole. Realtà spesso connessa a situazioni di violenza e femminicidi:  un grumo di di patriarcato maschilista che si riflette nella famiglia, nel mondo del lavoro, nella coppia. Solo in Un’amicizia ho voluto regalare un padre nuovo, che è quello che intravedo nella nuove generazioni: maschi che non vogliono fare solo i maschi, che non vogliono appartenere  a quel tipo di stereotipo per cui se cambi un pannolino o prepari una pappina non sei un uomo. Questa sottocultura regressiva va superata: oggi i padri vogliono fare i padri, essere presenti.

Mio figlio di 7 anni, prima elementare, tempo fa mi ha chiesto: “È più importante un amico o l’arte?”. Cosa gli risponderesti?
Che l’amicizia e la letteratura sono la stessa cosa, nella misura in cui quando apri un libro o contempli un quadro meraviglioso, entri a contatto con un altro che ti prende e ti porta via dalla tua normalità, dal tuo orticello, ti spalanca il mondo. E facendo questo ti fa crescere. Un vero amico, un grande libro, un’opera d’arte ti liberano sempre.

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