Lei è Valeria Margherita Mosca ed è una forager. Il foraging è la raccolta di cibo spontaneo. Ha fondato nel quartier generale di Villa Buttafava, in Brianza, Wood*Ing, Wild Food Lab, un laboratorio di ricerca fondato nel 2010 sulla raccolta, la conservazione e l’utilizzo del cibo selvatico in cucina, uno dei progetti più interessanti degli ultimi anni.
Dopo aver pubblicato “Wild mixology. Tecniche innovative e ingredienti selvatici per una nuova filosofia di miscelazione dei cocktail” e “Imparare l’arte del foraging. Conoscere, raccogliere, consumare il cibo selvatico”, sta per uscire il suo ultimo libro “Cucinare il giardino”, in cui insegna come riconoscere e utilizzare le specie botaniche del proprio giardino per un’alimentazione sana.
Da forager, Valeria cammina tra i boschi, scruta il suolo, i cespugli, gli alberi. Sradica o stacca rami (solo di piante già morte, però), foglie, fiori e frutti, ma anche linfa e aromi, con grande attenzione e conoscenze botaniche, quelle specie selvatiche commestibili che possono essere impiegate in cucina, anche come ‘superfood’, quei cibi che hanno capacità benefiche per la salute grazie alla quantità di nutrienti che contengono. Valeria cataloga ciascun elemento con il nome latino sotto un punto di vista chimico e nutrizionale.
“Lo scopo”, racconta Valeria che abbiamo incontrato in occasione di Orme Festival, il festival dei sentieri che si tiene ogni anno a Fai della Paganella, in Trentino “è di rendere accessibile un patrimonio molto vasto legato alla sussistenza, specie di quei Paesi dove le materie prime scarseggiano e poi per divulgare la tematica tenendo corsi, pubblicando libri e facendo consulenza prima di immettere prodotti a basso impatto ambientale sul mercato”.
Una nuova disciplina, che si fonda sul nostro bagaglio culturale, però, poiché fino all’avvento dell’industrializzazione era così che i nostri antenati si rifornivano di erbe aromatiche e di piante medicinali per cucinare o per curare le malattie, assieme a tante erbe e vegetali dalle interessanti caratteristiche organolettiche e nutrizionali, e che la grande distribuzione ha poi confinato nell’oblio.
Cos’è esattamente il foraging?
“Il foraging è l’attività di andare a raccogliere piante o parti di esse selvatiche adatte al nutrimento umano in ambienti il più possibile incontaminati. Un tempo le persone avevano la necessità di arricchire la propria sussistenza con il cibo selvatico perché quello che veniva coltivato non era sufficiente a sfamare la popolazione non essendoci una produzione massiva. Quindi una volta si componeva il proprio pasto, anche all’80%, di cibo selvatico”.
Chiunque può fare foraging o bisogna avere una preparazione specifica?
“Bisogna assolutamente formarsi, perché fare foraging può essere anche molto pericoloso perché se si sbaglia ci si può intossicare. Non si può raccogliere a caso. Questo è un motivo. L’altro è una questione ambientale perché bisogna entrare negli habitat in maniera corretta raccogliendo ciò che è disponibile, ma senza saccheggiare l’ambiente, quindi con una raccolta oculata e mirata. Io ho teorizzato quello che chiamo foraging conservativo concentrandomi fondamentalmente sulle piante invasive, quelle che in realtà danno fastidio agli ecosistemi così da poter davvero cooperare con l’ambiente, arrivando a un concetto di sostenibilità maggiore, quasi estremo anzi facendo un passo ulteriore”.
Il tuo pensiero si sposa benissimo con il concetto moderno di sostenibilità.
“Esistono molti concetti di sostenibilità, bisognerebbe ragionare ogni istante della nostra esistenza e chiederci se sia sostenibile ciò che facciamo. ‘Sostenibile’ significa ‘sopportabile’ ed essere sopportabili per il pianeta implica esserlo non con regolarità quotidiana bensì al secondo e fare del nostro meglio per arrivare a un massimo secondo le nostre possibilità vivendo nella maniera più sostenibile possibile”.
Alcune delle piante che raccogli sono considerate dei superfood?
“Assolutamente sì. Noi siamo circondati da superfood, anche tra le piante invasive. A Wood*Ing abbiamo un progetto che si chiama ‘Thinking like a forest’ dove andiamo a rivalutare gli alpeggi d’alta montagna e le aree ex agricole in stato d’abbandono e andiamo a lavorare sul concetto di azienda agricola che ragiona su questi cibi molto nutrienti che vengono presi solo in queste aree e messi in commercio. Infatti, bisognerebbe ragionare di più sui cibi che vengono messi in commercio e che ci vengono propinati”.
Nel Nord Europa questa pratica è di moda da anni, solo ora se ne parla anche in Italia.
“In realtà non è così, si tratta di un primitivismo modaiolo, una tendenza che è stata lanciata 7-8 anni fa dai grandi chef dei Paesi nordici che hanno recuperato l’utilizzo di alcuni ingredienti, come quelli che utilizzavamo anche noi, ma la tradizione alimurgica è molto più forte nei Paesi mediterranei, semplicemente per il fatto che noi abbiamo più biodiversità rispetto ai Paesi nordici o anglosassoni per questioni di latitudini diverse. Anzi, l’alimentazione di questi Paesi si è sempre basata di più sulla caccia e la carne che non sui vegetali. Il fatto che loro abbiano rilanciato il foraging non significa che siano supportati da una tradizione ma solo che sono stati furbi a utilizzarlo come storytelling del loro territorio”.
Tra i progetti di Valeria ci sono altri due libri in uscita nel 2022, uno sul rapporto tra uomo e foresta e l’altro dedicato ai bambini. Perché la consapevolezza di utilizzare ciò che la natura ci dà la si dovfrebbe imparare fin da piccoli.