“La donna è a pezzi” Ma le giuste parole, e l’impegno, possono ricomporla

Elena Miglietti, co-direttrice di Mind the Gap - Storie Sovrapposte, Festival sul femminismo intersezionale, ci ha parlato di donne, di giovani e di Mafie. E di come parole e impegno possano cambiare la storia

Pubblicato: 6 Giugno 2022 20:36

Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Elena Miglietti, giornalista e docente della scuola Holden, è stata co-direttrice della seconda edizione di Mind the Gap – Storie Sovrapposte, il festival che si occupa di parità di genere e di femminismo intersezionale (che guarda alle interconnessioni tra diverse oppressioni, come quelle di genere, razza, classe, orientamento sessuale e disabilità) tenutosi a Torino dal 6 all’8 maggio scorso.

Elena è una docente ma anche una scrittrice, una esperta di Medioevo, una appassionata di musica e l’artefice del bellissimo progetto Libera Terra, che si occupa del recupero delle  terre confiscate alla mafia, attraverso la creazione di aziende cooperative autonome, autosufficienti, in grado di dare lavoro e proporre un sistema economico virtuoso, basato sulla legalità, sulla giustizia sociale e sul mercato.

La donna è a pezzi. Partiamo da quello che era il tema, il filo conduttore, della seconda edizione di Mind the Gap – Storie Sovrapposte. Come si può ricomporla e raccontarla con le giuste parole?
Le parole sono importanti, diceva qualcuno ed è una indiscutibile verità. Lo spirito dell’intera direzione artistica partiva dall’assunto che quella disgregazione in pezzi non sia più sopportabile. L’immagine guida è una Venere di Milo disgregata che si ricompone per recuperare forza e bellezza, così come le donne si ricompongono sempre, si ricostruiscono dopo le cadute, oggi con più coraggio. Sono fortemente convinta che le parole strutturino la realtà.

Linguaggio di genere, linguaggio inclusivo e giusto spazio alle donne negli organi di informazione: come hai lavorato nel tempo su questi tre binari paralleli?
Undici anni fa, per puro caso, ho incrociato l’esperienza di GiULiA giornaliste (Giornaliste Unite Libere e Autonome), un’esperienza cui ho subito aderito. Non conoscevo nessuna delle colleghe iscritte, a parte le più famose, alcune vere maestre della mia formazione. L’associazione si occupa modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e declinato al femminile, battersi perché le giornaliste abbiano pari opportunità nei luoghi di lavoro, senza tetti di cristallo e discriminazioni. Con loro ho trovato dimensione e militanza, in particolare mi interessa il focus su donne e Sport. Poi a Torino, l’anno scorso, ho aderito alla rete di Torino Città per le Donne, un’esperienza che parte dalla mia città e si è allargata a molte altre, con loro curo una rubrica, Stories Juke Box, un podcast in cui racconto storie di donne (reali, di fantasia, storiche) che sceglie il pubblico con un contest su Instagram.

I tuoi libri parlano di donne?
Non quanto vorrei, spesso parlano più di musica. L’ultimo, quello che su cui sto lavorando, parla di mia nonna e di come lei vedeva il mondo e tutti noi. È difficile perché parte dal punto di vista di una ragazza nata nel 1925 che perde una figlia, mia madre, ed è costretta a un confronto continuo con nipote e pronipote: abbiamo costruito ponti lunghissimi per comprenderci. Non sempre è successo.

C’è uno scrittore, del passato o del presente, che ha saputo raccontare le donne con le parole giuste?
Amo Colette, non tanto per come ha descritto Léa, la donna protagonista del suo libro, ma per come è riuscita a raccontare la petulanza di certi uomini, descrivendo Chéri con parole meravigliosamente odiose. Oggi amo leggere tutto ciò che scrive Marina Cuollo, un vero faro del femminismo intersezionale: tutte le sue parole sono giuste.

La musica è un’altra tua grande passione, replico la stessa domanda: un cantante, un autore che ha saputo raccontare il mondo femminile, in musica e versi, al meglio?
Ci sono immagini, sprazzi di testi che mi emozionano. Penso a “i suoi lunghi capelli, non li rivedrò più” in Settembre di Alberto Fortis, come alcuni tratti/ritratti in Anche per te di Lucio Battisti. Amo Patriza di Eugenio Finardi, credo che “ti amo perché sei solare/perché ti so toccare” siano parole che rasentino il sublime. Ce ne sonno molti di esempi, alla fine rimango sulla musica italiana e scelgo Mostrami una donna dei Perturbazione, ha parole attente e bellissime e una richiesta continua di raccontarsi.

Sei una appassionata di Medioevo: eppure è stata un’epoca buia per la donna, subordinata all’uomo e relegata ai margini della società. O sbaglio?
Povero Medioevo, è un periodo storico bellissimo, vivo e attivo cui si fa troppo spesso riferimento come esempio di arretratezza e chiusura. Eppure il Prof. Alessandro Barbero ci racconta da anni quanta vita ci fosse e quanto battito, respiro, anche nel rapporto fra i sessi. È stato un periodo di battaglie e conquiste per le donne di allora, alcune hanno avuto grande spazio. Una su tutte, ho chiamato mia figlia come lei, Adelaide di Susa che scardina totalmente i cliché delle donne nel contesto storico del suo tempo. Fu una donna di potere capace di inserirsi all’interno di sistemi politici europei, in mano quasi totalmente a uomini, agendo da protagonista. Non subì mai un matrimonio e lei, nobile longobarda, sposando Oddone di Savoia, garantì a quel casato l’accesso al di qua delle Alpi. Niente male per una ragazza nata nel 1016.

Ti occupi di corporate storytelling alla scuola Holden: spieghi ai nostri lettori di cosa si tratta?
La Scuola Holden è un luogo unico in Europa: la sede è nell’ex caserma Cavalli e laddove un tempo si producevano armi, oggi si laureano giovani studenti in scrittura. Direi che siamo di fronte a un bell’esempio di bonifica spirituale di un luogo. Con la Scuola Holden mi occupo da anni di narrazione aziendale, raccontare il quotidiano del mondo del lavoro, delle donne e degli uomini che ogni giorno si impegnano in una attività, ha un fascino incredibile. Le grandi aziende, le piccole attività e le persone che le compongono hanno vissuti professionali preziosi che è importante raccontare e questo faccio, racconto le loro storie. Oppure, attraverso la formazione d’azienda, aiuto loro a raccontare se stessi e il proprio lavoro.

Cosa vedi negli occhi dei ragazzi che vogliono diventare scrittori, imparare e raccontare il mondo che li circonda? E qual è il consiglio più prezioso che dai loro?
I ragazzi oggi hanno una marcia in più e molti strumenti per raccontare e raccontarsi, la scrittura è solamente una delle forme di narrazione a loro disposizione. Hanno i social, le immagini, la musica, la grafica, il design, sanno mischiare tutto e creare meraviglia, già giovanissimi. Non so se i miei siano consigli preziosi, ne do sempre due: non vedere mai nelle generazioni precedenti qualcosa di noioso, al contrario, sono una risorsa e prima o poi invecchiamo tutti; non farsi mai rallentare dai sabotatori.

Ci racconti il bellissimo progetto “Libera Terra” e di cosa tu ti occupi nello specifico?
Il progetto è avviato da anni ed è stato incredibile vederne l’evoluzione. La confisca dei beni ai mafiosi e l’assegnazione a realtà virtuose della società civile, sono state raccontate  per anni attraverso la retorica di “quei bravi ragazzi che lavorano sui terreni confiscati”. Oggi quei bravi ragazzi sono donne e uomini con competenze agronomiche, manageriali, gestiscono produzione, marketing e distribuzione, garantendo diritti e lavoro laddove un tempo c’era solamente desolazione. Ho deciso molti anni fa di diventare socia sovventrice della Cooperativa Placido Rizzotto, che cominciò con la produzione di pasta e oggi gestisce anche una importante cantina, si chiama “Cento Passi”. Ero molto giovane e volevo lasciare un esempio importante a mia figlia, da Torino misi il naso in un’esperienza siciliana, esperienza paradigmatica non solo in Italia, ma in tutto il mondo di quanto la società civile possa fare nella lotta alla criminalità organizzata.

Il 23 maggio scorso è stato l’anniversario della morte di Falcone. Giovanni diceva: “Gli uomini passano ma gli ideali restano e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Credi che il suo esempio, il suo coraggio continuino a farlo?
Sulle gambe di altri uomini e altre donne. Temo la deriva di questi ultimi anni che si sta dimenticando del sacrificio di questi giganti, a volte banalizzandone l’importanza. Non dobbiamo mai smettere di raccontare alle nuove generazioni il valore dell’impegno, è fondamentale accompagnare le nostre ragazze e i nostri ragazzi perché vivano con coraggio, non si tirino mai indietro, anzi raccolgano, sempre, il testimone quando qualcuno viene meno, senza paura. Le mie gambe sono ancora buone e mi sento di portare un po’ di quel peso, che diventa meraviglia quando posso condividerlo con altri e so che siamo molti, moltissimi.

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