Sanpa: Vincenzo Muccioli non era un santo, non era un eroe. Era un uomo

La docuserie SanPa rilasciata su Netflix racconta la storia di San Patrignano e la parabola di Vincenzo Muccioli, ma l'interrogativo finale resta: quanti ragazzi si sarebbero salvati senza di lui?

Pubblicato: 6 Gennaio 2021 12:37

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Ho visto la serie Sanpa tutto d’un fiato il 1° gennaio, ogni episodio mi lasciava con la voglia di scoprire cosa accadesse dopo, come se Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli avessero ricostruito gli eventi e le voci intorno alla comunità di recupero dalle tossicodipendenze più famosa in Italia. Sono stata rapita dai racconti e dalle testimonianze di chi ci aveva vissuto, chi ne aveva sposato ideali e mission, chi se ne dissociava, cercando di crearmi un punto di vista personale, qualcosa che non si facesse condizionare dagli eventi raccontati.

Ho cercato di guardare gli occhi di Vincenzo attraverso il video, pur sapendo come si possa mentire attraverso lo sguardo, come sia facile mostrare solo quello che si vuole e nascondere il resto, eppure io in quel volto, in quei sorrisi a tratti accennati, a tratti compiaciuti, ho visto un uomo che voleva davvero bene ai suoi ragazzi, un uomo che avrebbe fatto qualunque cosa per salvarli, anche privarli della loro libertà, se questo voleva salvarli dalla droga. Muccioli non era un santo, non era un eroe. Era un uomo. E come ogni essere umano ha commesso tanti sbagli. Era corretto il suo modus operandi? Adesso tutti grideremo che no, non si può privare un uomo del libero arbitrio, che i ragazzi venivano trattati al pari delle bestie, incatenati e lasciati soli a smaltire le crisi di astinenza.

Ma le verità è che in quel periodo era l’unico modo per fermare la strage di un’intera generazione, Vincenzo aveva creato un metodo, che era il suo metodo, lo diceva chiaramente ai ragazzi che sostavano giorni davanti ai suoi cancelli. Aveva le competenze scientifiche per farlo? No. Ma aveva l’esperienza conquistata sul campo, liberando migliaia e migliaia di ragazzi, riportandoli a una normalità dimenticata, restituendoli ai loro cari.

Perché la verità è che è difficile spiegare a chi non era nato, o a chi non li ha vissuti, cosa siano stati gli anni ottanta per i ragazzi che in quel periodo erano adolescenti. È difficile raccontare come l’eroina sia entrata nella vita di tanti, abbia preso possesso della loro mente, rendendoli schiavi, disposti a fare qualunque cosa, a vendere qualunque cosa, a vendersi per una dose distruggendo famiglie, accompagnandole in un baratro senza chiedere il permesso a nessuno. E io la disperazione quella assoluta l’ho vissuta sulla mia pelle, perché quando l’eroina entra in vena a un tuo familiare, il veleno diventa una valanga che trascina tutti nel baratro del tormento.

E allora io ascoltavo le parole di Fabio Cantelli, il suo sguardo abbassato, la sua voce pacata e tratti disperata, di uno che a Vincenzo gli ha davvero voluto bene, e poi quelle di Antonio Boschini, i suoi occhi puri e la sua ferma convinzione dell’innocenza del suo mentore e salvatore, e infine quelli di Walter Delogu, trascinato in un processo che voleva evitare, costretto a tirare fuori una cassetta che avrebbe usato solo come lasciapassare, ma che lascia tante troppe frasi a metà, che a tratti lancia il sasso e nasconde la mano, che lascia intendere, ma non dice, come a far capire che ci sarebbero ancora tanti troppi segreti non venuti fuori, e sono interrogativi che rimangono nella testa di chi guarda il documentario. Perché la parabola di Vincenzo è stata quella classica di un uomo prima osannato come salvatore, corteggiato da chi aveva intravisto nella comunità e nei parenti dei ragazzi rinchiusi, una fucina di voti da poter usare in campagna elettorale, ospitato in ogni trasmissione, e poi fatto cadere, come “corpo morto cade”.

Eppure più di ogni altra scena, più di ogni altra testimonianza ascoltata, nella mia testa rimbombano le immagini di quelle madri disperate, di quei padri ammassati ai cancelli che chiedono ai figli di farsi vedere, che implorano di accoglierli e di salvarli. Perché la verità la conosce davvero solo chi ha visto un tossicodipendente in crisi d’astinenza, e sa cosa riesca a inventarsi pur di recuperare una dose. Muccioli in quegli anni ha fatto quello che nessuno voleva fare, si è preso cura a suo modo di quelli che erano considerati rifiuti della società. Avrà fatto degli errori? Certo. Penso si sia macchiato di omicidi? Assolutamente no.  Ma lui ha ridato la speranza, ha dato una vita a chi una vita non l’aveva più. Ha abbracciato chi aveva ricevuto solo schiaffi.

Sono passati trent’anni da quando mio cugino Gabriele è morto. Uscito per recuperare un bracciale che aveva impegnato per una dose e mai più rientrato. Mentre scorrevano quelle immagini io l’unica cosa che riuscivo a pensare era il suo viso, a come sarebbe stato se fosse riuscito a salvarsi, a come sarebbe stato se avesse incontrato un Vincenzo Muccioli nella sua vita. Il sottotitolo della docu-serie recita “Quanto male sei disposto a giustificare per fare del bene?” e io l’unica risposta che sono riuscita a darmi è che lo avrei fatto rinchiudere anche per un mese se solo questo mi avesse dato la possibilità di vedere crescere i suoi figli.

Mio cugino avrà per sempre 23 anni. E si sarebbe meritato tutta una vita.

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