Quando la morte di un figlio diventa uno show

Fino a che punto è giusto raccontare la vita, ma soprattutto la malattia, il dolore e la morte, del proprio figlio sui social?

Pubblicato: 29 Novembre 2024 12:36

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Ignoro il motivo per cui qualche giorno fa l’algoritmo di Instagram abbia deciso di mostrami il profilo di una famiglia americana con una bambina di dieci anni appena spirata per un tumore, ma tant’è, è successo, ed io mi sono ritrovata catapultata in una serie di video, foto, reel, con tanto di sottotitoli, in cui il corpo e l’anima di questa piccolina, devastati dalla chemio e dalla malattia, venivano mostrati senza un minimo di pietas, senza il rispetto che qualsiasi essere umano dovrebbe avere nei confronti di un altro essere umano, figuriamoci nei confronti del proprio figlio.

Erano reportage del dolore veri e propri, con tanto di zoom su quelle piccole braccia martoriate da aghi troppi grandi, e su quegli occhi ormai vuoti, con tanto di richieste di sorridere ai follower, e sono rimasta così turbata da dover chiudere velocemente quella pagina e quel social per un po’, con una sola domanda in testa: perché? Perché aggiornare quotidianamente un profilo che mostra in diretta la vita e la morte di tua figlia, tra una chemio, un sondino, una padella, una conchetta per il vomito, e soprattutto com’è possibile che dei genitori decidano scientemente di ledere la privacy e la dignità del sangue del proprio sangue, mostrando una devastazione fisica e mentale, che tra le altre cose, nemmeno gli appartiene?

Ho pensato che forse in quei momenti la lucidità possa venire meno, che si abbia bisogno di un abbraccio più grande, che nei cuori e nelle condivisioni dei follower queste persone si illudano di essere circondati di amore vero, ignorando che la maggior parte dei seguaci abbia il culto della pornografia del dolore, un allontanare la paura che possa succedere a me, perché sta succedendo ad altri, arrivando quasi a pensare che la morte faccia parte di un disegno più grande, per quelli profondamente credenti, come una sceneggiatura di cui conosci già la fine, e visto che ormai sai già cosa accadrà nelle ultime scene, nel mentre  e tutto intorno, ci costruisci uno storytelling, come se fosse una serie tv, solo che quella è la vita e la morte di tuo figlio.

Quando mio marito ha rischiato di morire per un’emorragia interna ho pianto tutte le lacrime che avevo in corpo, poi mi sono ricomposta, ho abbracciato e parlato con i miei figli, ed ho passato le cinque ore più lunghe di tutta una vita davanti alla porta della terapia intensiva, in ospedale, da sola, tra telefonate e whatsapp delle persone che volevo fossero con me, e solo in un secondo momento, ho deciso di condividere con i follower gli aggiornamenti sulla salute del mio amore, che è anche un personaggio pubblico.

L’ho fatto perché avevo bisogno in un abbraccio, avevo bisogno di sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene, che ce l’avremmo fatta, ma mai mi sarebbe venuto in mente di mostrare le sue cicatrici, il suo corpo devastato ma salvo, perché chi avrebbe aiutato?  A cosa sarebbe servito? E non scrivo questo per affermare di essere stata migliore di loro, è solo per sottolineare che in quelle situazioni è vero che ci si aggrappa a tutto, anche al calore degli estranei, perché per sopravvivere al dolore che ti mangia da dentro, provi di tutto, ma sopra ogni cosa ci deve essere sempre il rispetto di chi, quel dolore, lo sta provando sulla sua pelle.

Eppure per due giorni non sono riuscita a smettere di pensare a questa bambina, al fatto che i suoi genitori avessero ritenuto giusto condividere il suo ultimo respiro, il suo corpo senza battito, i saluti delle varie celeb nelle stories, i vari rip, tra un’asta della chemio, ed un video di ricordi, ed infine una richiesta di donazione, come se quelle immagini avessero un prezzo, come se la morte avesse un prezzo. Ho cercato di capire, di fare un passo indietro, perché di fronte ad un dolore così, che ti sconquassa da dentro, forse si perde il lume della ragione, ma la realtà è che l’esposizione così cruda e senza un vero senso (ispirazionale, motivazionale o quant’altro vi possa venire in mente) di un cancro pediatrico sulla pelle di un bambino non ha davvero motivo di esistere. Ancora più se questo bambino è vostro figlio.

Mi sono anche chiesta come fosse possibile che i social permettessero di ledere la privacy di un minore in questo modo, quale fosse il significato di dignità per l’algoritmo, e perché ancora non sia stata fatta una legge che tuteli i minori da questa pornografia del dolore, ed ho chiesto aiuto ed un parere a chi, forse è più esperto di me in materia, Luca Trapanese, assessore al welfare per il comune di Napoli, e da anni in prima fila nella cura e nel sostegno dei bambini malati terminali.

Perché queste famiglie condividono la malattia oncologica come se fosse uno show, sulla pelle dei propri figli, perché mostrare il dolore che trasfigura, a che pro, a chi serve, a cosa serve? 
Esibire sui social le immagini di bambini malati di cancro, spesso in momenti di estrema vulnerabilità, rischia di violare profondamente il loro diritto alla dignità e alla privacy. Anche se l’intenzione può essere quella di sensibilizzare o cercare sostegno, il dolore dei più piccoli non dovrebbe mai diventare uno strumento per raccogliere consensi o attenzioni. Ogni bambino merita che la propria sofferenza sia rispettata, vissuta e affrontata in un ambiente protetto, lontano dai riflettori virtuali. Rendere pubbliche queste immagini può trasformare un momento intimo e delicato in uno spettacolo, sottovalutando l’impatto che questa esposizione avrà sul loro futuro, quando saranno in grado di comprendere e giudicare ciò che è stato condiviso senza il loro consenso. Raccontare il dolore può essere importante, ma sempre salvaguardando la dignità di chi lo vive. Detto questo, è importante fare una distinzione: condividere storie o immagini per sensibilizzare il pubblico sulla diversità o sulla disabilità del propio figlio è un’azione che, se fatta con rispetto e consapevolezza, può aiutare a combattere pregiudizi, promuovere inclusione e aumentare la consapevolezza sociale. Tuttavia, anche in questi casi, deve prevalere la tutela della dignità del bambino e il rispetto per la sua individualità, evitando ogni forma di spettacolarizzazione. Il confine tra sensibilizzazione e violazione della privacy è sottile, e va sempre affrontato con estrema attenzione.

Sperando che presto venga approvata una legge che impedisca ai grandi di sfruttare i piccoli. Anche se si tratta dei propri figli.

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