Sylvia Plath, il tragico epilogo di una donna che voleva essere tutto

"Credo che mi piacerebbe definirmi la ragazza che voleva essere Dio", così Sylvia Plath racconta la perfezione sopra ogni cosa

Pubblicato: 27 Ottobre 2020 17:04Aggiornato: 3 maggio 2024 15:56

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Una ricerca di perfezione che è diventata ossessione: così Sylvia Plath, che da bambina sognava di essere Dio, conduce una vita di grande aspettative con la presenza ingombrante dell’onnipotenza.

Studia sodo e lavora instancabilmente, scrive a tutte le ore del giorno e della notte senza fermarsi mai. Eppure ha tempo per leggere, per sposarsi e mettere su famiglia; non rinuncia alla carriera e ai suoi sogni di scrittrice ma i suoi due bambini vengono prima di ogni cosa così, anche quando il marito la lascia per un’altra donna, continua a occuparsi dei figli da sola perché lei, che è anche una mamma perfetta, non può permettersi debolezze. Ma Sylvia è umana e, nonostante quella ricerca disperata di riuscire a fare e a dare sempre il meglio, non ce la fa.

Chi era Sylvia Plath

Morire è un’arte / come qualunque altra cosa / io lo faccio in modo eccezionale.

Tre versi, quelli sopra, tratti dalla poesia Lady Lazarus che contengono tutta la vita Sylvia Plath, poetessa eccezionale che non si è accontentata di cogliere le sfumature della vita; per lei esisteva un solo colore, quello della luce e della gloria, della vittoria e della perfezione.

Nata in una casa sull’oceano, il 27 ottobre del 1932, da un padre professore e una madre casalinga devota alla sua famiglia, eredita dai suoi ricordi d’infanzia i paesaggi più belli, gli stessi che la hanno ispirata. La madre la inizia alla poesia ma è al padre che, dopo la sua morte precoce, dedica i suoi versi più belli.

Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo.

Una patina dorata aleggia sulla vita della poetessa, ma basta scavare un po’ più a fondo per scoprire l’ombra della depressione che si nasconde nelle pagine del suo diario. Poi l’incontro con Ted Hughes e quella felicità inaspettata nata da quella relazione.

Lui è brillante, un genio, un talento letterario e lei, così affascinata dalla perfezione cade vittima dell’incantesimo dell’amore. Sylvia continua a scrivere districandosi in quella vita casalinga, nella casa di campagna in Devon, che le sta sempre più stretta; Ted invece viaggia e continua la sua ascesa verso il successo.

Poi la pubblicazione del primo romanzo, La campana di vetro. Un racconto che narra del peso insopportabile, schiacciante e soffocante del conformismo dell’epoca, quello in cui ha vissuto. Decide di firmarlo con lo pseudonimo Victoria Lucas perché i suoi genitori non possono restare feriti o sconvolti da quelle parole. Un discreto successo che però non placa gli animi di quel demone con cui Sylvia combatte da tutta la vita, quello che continua a dirle che deve alzare l’asticella, che non può cedere. Che deve eccellere.

Poi l’abbandono: Ted la tradisce e si invaghisce della collega Assia Wevill, e alla poetessa non resta che ricominciare una nuova vita con l’anima ferita. Un dolore che però si concilia con la sua creatività, in quegli anni infatti la Plath scrive le poesie oggi raccolte in Ariel.

Vivo come una spartana, scrivo in preda a una febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di me. Mi sento stordita e molto fortunata. Continuavo a dirmi che ero il tipo che riusciva solo a scrivere quando era tranquilla e in pace, ma non è vero, la musa è venuta qui, adesso che Ted se n’è andato.

Lasciata per sempre la casa di campagna, Sylvia torna a Londra e trova la compiutezza nella sua scrittura mentre dentro di sé medita il suicidio. Il suo percorso ormai è concluso, la perfezione dei suoi versi la rendono finalmente onnipotente.

Credo che mi piacerebbe definirmi la ragazza che voleva essere Dio.

L’11 febbraio del 1963, con la perfezione maniacale che la contraddistingue, la poetessa organizza tutto nei minimi dettagli: prepara la colazione ai suoi bambini che dormono al sicuro nella cameretta lasciando la loro finestra aperta, accende il forno a gas e poggia la sua testa all’interno, mettendo un punto a quella tormentosa battaglia contro il suo demone. Ha vinto lui.

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