Cos’è la colangite biliare primitiva e cosa comporta

La colangite biliare primitiva è una rara malattia epatica autoimmune che è importante conoscere

Pubblicato: 9 Aprile 2024 10:22Aggiornato: 28 marzo 2018 11:00

Andrea Costantino

Medico chirurgo

Medico abilitato alla professione, iscritto all'albo dei Medici e degli Odontoiatri di Siena.

La colangite biliare primitiva (in precedenza conosciuta come “cirrosi biliare primitiva”) è una patologia cronica autoimmune del fegato estremamente rara: colpisce infatti una donna su mille, in genere dopo i 40 anni.

Tale condizione si configura come un’epatopatia colestatica cronica ad evoluzione lenta ed eziologia autoimmune. Colpisce principalmente i dotti biliari intraepatici di piccole dimensioni, deputati a trasportare la bile, prodotta dalle cellule epatiche, nelle vie biliari maggiori e nella colecisti, dove viene immagazzinata per poi essere riversata nell’intestino. La bile svolge una funzione fondamentale nella digestione e nell’eliminazione della bilirubina e del colesterolo e, se non adeguatamente smaltita, può avere un’azione irritativa ed infiammatoria significativa.

Un po’ di dati sulla colangite biliare

Le persone affette hanno all’incirca 50-80 anni al momento della diagnosi e il 90% sono di sesso femminile, sebbene il motivo per cui le donne siano più colpite degli uomini non sia al momento ancora del tutto compreso. L’incidenza annuale è stimata tra 0,7 e 49 casi per milione di popolazione e la prevalenza tra 6,7 e 940 casi per milione di popolazione (a seconda dell’età e del sesso).

Fisiopatologia della colangite biliare primitiva

I meccanismi alla base della colangite biliare primitiva (CBP) sono, ancor’oggi, in parte sconosciuti ma riconoscono indubbiamente un’eziopatogenesi multifattoriale, dove un ruolo importante può essere giocato da fattori ambientali, dalla suscettibilità genetica e da alcuni meccanismi epigenetici (NB L’epigenetica studia come l’età e l’esposizione a fattori ambientali, tra cui agenti fisici e chimici, dieta, attività fisica, possono modificare l’espressione dei geni pur senza modificare la sequenza del DNA).

La predisposizione genetica è stata dimostrata da vari studi su famiglie e gemelli con evidenza di un aumentato rischio di sviluppare CBP in parenti di primo, secondo e terzo grado.

Su un substrato genetico favorevole possono intervenire una serie di fattori ambientali, rappresentati o da un agente infettivo (batterico o virale) o tossico (xenobiotici o fumo di sigaretta), che potranno rappresentare l’evento scatenante per lo slatentizzare della patologia.

Tali agenti esterni potranno fungere da “antigeni” e venire, quindi, riconosciuti come estranei dal nostro sistema immunitario, che organizzerà una reazione infiammatoria contro queste cellule: per meccanismi complessi di “mimetismo molecolare”, i linfociti T attaccheranno altre cellule con caratteristiche strutturali simili, localizzate, appunto, a livello delle vie biliari. Tale meccanismo innescherà una risposta auto-immunitaria destinata a perpetrarsi ed amplificarsi nel corso del tempo.

Perché questo meccanismo autoimmunitario è così pericoloso?

La distruzione e la perdita di dotti biliari comporterà una riduzione nella formazione e secrezione della bile (colestasi), che sarà dannosa per il fegato ed indurrà una cicatrizzazione nelle zone periportali. Alla fine, l’infiammazione epatica diminuisce mentre la fibrosi epatica progredisce fino alla cirrosi, con completo sovvertimento dell’architettura di quest’organo.

Tra le più recenti scoperte degli ultimi anni, oggi si sospetta che un importante ruolo patogenetico possa essere svolto dalle alterazioni del microbiota intestinale, secondarie alla dieta o alla alterata produzione di acidi biliari. Le alterate abitudini alimentari spiegherebbero la maggior prevalenza di patologia nel mondo occidentale.

I sintomi della colangite biliare primitiva

I sintomi di questa patologia sono particolarmente insidiosi: la maggior parte degli individui non presenterà alcun campanello d’allarme per diversi anni, con conseguente diagnosi tardiva. Dopo una raccolta anamnestica più approfondita, i pazienti colpiti da tale affezione potranno riferire stanchezza, prurito diffuso o localizzato, gonfiore addominale, secchezza di bocca e occhi e problemi digestivi.

Con il procedere della malattia i sintomi diventano via via più gravi per via dei danni registrati dal fegato. Altre manifestazioni iniziali comprendono dolenzia al quadrante superiore destro (10%); un fegato ingrandito, di consistenza dura, non dolente (25%); splenomegalia (15%); iperpigmentazione (25%); xantelasmi (10%); e ittero (10%).

Fino al 60% dei casi si presenta in associazione ad altre patologie autoimmuni quali la tiroidite (Hashimoto e Graves), la sindrome di Sjögren, la sclerodermia e il lupus eritematoso sistemico.

Come diagnosticare la colangite biliare primitiva

Per poter formulare la diagnosi di colangite biliare primitiva, secondo i più recenti algoritmi diagnostici, è necessario che siano presenti 2/3 dei seguenti criteri:

I primi due criteri sono spesso sufficienti per poter formulare la diagnosi definitiva, riservando la biopsia epatica ai casi dubbi o complessi o per fare una valutazione di tipo prognostico sul singolo individuo.

In particolare, la biopsia epatica è necessaria per confermare una colangite biliare primitiva negativa per gli AMA ed aiuta ad escludere altre diagnosi colestatiche (epatopatia indotta da farmaci, sarcoidosi, colangite biliare primitiva, ostruzione biliare, epatite autoimmune) o se si sospettano malattie epatiche coesistenti (epatite autoimmune o steatoepatite non alcolica).

La biopsia epatica può rilevare lesioni patognomoniche dei dotti biliari, anche nelle fasi iniziali. Con il progredire della colangite biliare primitiva, questa diventa morfologicamente indistinguibile dalle altre forme di cirrosi. Inoltre, tale esame consente anche di stadiare la colangite biliare primitiva e di confermare l’eventuale presenza di cirrosi sottostante.

Come curare la colangite biliare

Il primo step terapeutico nei confronti di questa patologia è rappresentato dall’acido ursodesossicolico (UDCA), che costituisce l’unico farmaco attualmente noto in grado di rallentare l’evoluzione della malattia. La prognosi è di solito buona, in particolare nei pazienti che iniziano un trattamento con UDCA durante i primi stadi dell’affezione e che, a seguito dell’inizio del trattamento, presentano un miglioramento ematochimico della funzionalità epatica. Il trapianto del fegato rappresenta di solito un’opzione per i pazienti affetti da insufficienza epatica e ha un tasso di sopravvivenza del 70% a sette anni.

Il meccanismo di funzionamento del farmaco si basa sulla riduzione della secrezione di acidi biliari, stimolando la produzione di bicarbonato nella bile al fine di proteggere le cellule dagli effetti tossici di tale sostanza endogena. Il 30% circa dei pazienti non risponde completamente al trattamento con UDCA, per cui dovrà ricorrere a farmaci di seconda linea (acido obeticolico).

Ad oggi, la richiesta di trapianto per pazienti con CBP è fortemente diminuita dopo l’introduzione della terapia con UDCA.

Grazie alle terapie sopramenzionate, la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti colpiti da questa patologia è notevolmente migliorata, sebbene tanti passi debbano ancora essere intrapresi sul fronte della ricerca.

Da qualche anno è stato istituito il PBC Group Study che si ripromette di realizzare il primo registro nazionale dei pazienti affetti da questa patologia, col fine di ridefinire i percorsi assistenziali per coloro che vivono con questa patologia. Il gruppo di studio coinvolge anche tre centri italiani.

Fonti bibliografiche:

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