Una violenza continua subita per oltre dieci anni, i cui dettagli hanno riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo. Una storia che non può non lasciare il segno in ognuno di noi per la sua crudezza. Quella di Gisèle Pelicot, donna 72enne che ha denunciato quella che lei stessa definisce “la banalità dello stupro”. L’ordinarietà delle violenze subite e di coloro che le violenze le hanno commesse e perpetrate. Al centro della sua lotta il marito, della stessa età, pensionato e prima tecnico informatico, che per anni l’ha drogata, offrendone poi il corpo privo di sensi a chiunque. Bastava che ci si prenotasse su internet.
Gli altri uomini? Quelli della “porta accanto”, 50 tra cuochi, manovali, ristoratori, etc… Ora tutti sono stati condannati e, anche se non esiste un risarcimento o una misura di ricostruzione adatta al suo caso, Gisèle esce dall’aula di tribunale vittoriosa e accolta dalle grida di tutte le donne che in questi mesi l’hanno sostenuta senza pace. Soprattutto, ci insegna che la vergogna deve cambiare parte.
La storia del processo aperto di Gisèle Pelicot
Partiamo dal 2 settembre, l’inizio della fine dell’incubo di Gisèle: il giorno dell’inizio del processo. Prima di allora il nome della signora Pelicot (e insistiamo a chiamarla così per un motivo per preciso), non si conosceva. La si chiamava con il nome falso di Françoise. Françoise che per 1o anni aveva subito, drogata, le violenze di 50 uomini, in balia dei voleri del marito. Un nome, quello falso, volto a proteggere la sua privacy, per “difenderla dalla vergogna” che colpisce le donne vittime di violenza che denunciano, si espongono, rischiano.
Ma dopo il 2 settembre, Gisèle Pelicot ha voluto usare il suo nome e, con un gesto ancora più forte e significativo, ha preteso che il processo fosse pubblico, aperto a tutti. Questo contrariamente a quanto previsto dal tribunale di Avignone, che aveva previsto un processo a porte chiuse. Anche i giornalisti hanno dunque assistito a tutte le testimonianze, tutte le proiezioni dei video registrati e catalogati dal marito stesso, che narrano violenze atroci.
20 anni di carcere sono stati dati all’ormai ex marito, Dominique Pelicot. Anche tutti gli altri 50 coimputati sono stati dichiarati colpevoli, con condanne di varie genere tra i 3 e i 15 anni. “Penso alle vittime (ndr di stupro) non riconosciute, le cui storie restano spesso nell’ombra. Voglio che sappiate che condividiamo la stessa lotta“, ha detto Gisèle, acclamata da centinaia di persone all’uscita del Palazzo di Giustizia di Avignone, nel sud della Francia. Pene che sicuramente non soddisfano la famiglia della donna, nè l’opinione pubblica e che chiudono quello che è stato definito il caso degli stupri di Mazan, dal nome del Paese in cui la coppia abitava.
La vergogna ha cambiato lato
Gisèle Pelicot esce vittoriosa e a testa alta. Lo fa perché, oltre alla sentenza, è riuscita ad ottenere quanto fino ad ora era solo stato detto e gridato come slogan nelle piazze che manifestano contro la violenza di genere: “Sono gli altri a doversi vergognare”. Non le vittime. Non chi subisce, ma chi perpetra violenze atroci sui corpi delle donne. Parlano forte e chiaro le due parole “Merci Gisèle” gridate da donne e uomini accorsi da tutta la Francia alla fine di un processo durato tre mesi all’uscita della donna dal Tribunale.
“Aprendo le porte del processo ho voluto che la società potesse trarre vantaggio da quel che si diceva in aula – ha detto la signora Pelicot – e non mi sono mai pentita della decisione. L’ho fatto perché spero di aiutare le altre donne, le vittime non riconosciute, le cui storie rimangono spesso nell’ombra”. Ormai Gisèle Pelicot e il marito Dominique sono divorziati, ma lei davanti alla scelta di poter liberarsi del cognome pregno di significati e di dolore dell’ex compagno, ha scelto di mantenerlo: “Perché i miei figli e i miei nipoti che lo portano non si debbano a loro volta vergognare“.
Quindi grazie Gisèle, grazie signora Pelicot. Grazie per aver preso una posizione scomoda e inaspettata, per aver lottato anche per tutte le donne vittime inascoltate di violenza e per aver finalmente cambiato il lato della vergogna.