Viviamo circondati da storie, quelle nostre e quelle degli altri. Alcune sono belle e fanno sognare, altre ci invitano a riflettere e altre ancora diventano ispirazioni, esortazioni e moniti. Ma ce ne sono alcune che sono così terrificanti da far tremare la voce, la vista e anche il cuore. Storie che non possiamo semplicemente scegliere di non leggere o ascoltare, come se si trattasse di un orribile racconto del terrore, perché sono reali e per questo ancora più mostruose.
Jeni Haynes, suo malgrado, si è ritrovata a diventare la protagonista di una di queste storie, forse tra le più agghiaccianti del nostro secolo, quella che racconta gli abusi e i soprusi ai danni di una minore che per sopravvivere si è vista costretta a sviluppare e a nascondersi in oltre 2000 voci, quelle nate a seguito dello sviluppo del disturbo dissociativo dell’identità.
Sei di queste l’hanno aiutata a far condannare il suo carnefice, suo padre, ottenendo la possibilità di testimoniare in tribunale durante il processo di uno dei più tragici e atroci casi di abusi su minori mai avvenuto in Australia. Questa è la sua storia.
Jeni Haynes, la sopravvivenza e lo sviluppo di personalità multipla
Ricostruire le terribili vicende che hanno sconvolto e stravolto irrimediabilmente la vita di Jeni Haynes, da quando era solo una bambina, non è facile. E non lo è perché le informazioni diffuse dai media, e dalla stessa Jeni al processo, e poi in un’intervista concessa alla BBC, sono così agghiaccianti che è faticoso leggerle, ascoltarle, e provare solo a immaginarle.
Perché quella donna, quando era solo una bambina, è stata privata della sua spensieratezza, della sua innocenza e della stessa vita da quella persona che aveva il diritto e il dovere di proteggerla: suo padre. E invece non solo è venuto meno a quella tacita promessa, ma lui la vita di sua figlia l’ha distrutta, l’ha annientata. E allora è stata lei a proteggersi, lo ha fatto sviluppando un disturbo di personalità multipla per sopravvivere al suo carnefice.
La storia di abusi e violenze di Jeni Haynes inizia tanti anni fa. Nel 1974, insieme ai suoi genitori, si è trasferita in Australia dal Regno Unito. Jeni aveva solo 4 anni, ma le violenze sessuali erano già cominciate da parte di suo padre. Proprio quella casa a Sydney, quella che sarebbe dovuta essere il suo porto sicuro e il suo rifugio, si è trasformata in un inferno senza via d’uscita.
Gli abusi non hanno mai smesso di esistere e i mesi si sono trasformati in anni che hanno creato ferite visibili e invisibili troppo dolorose per essere guarite solo dal tempo. A causa delle violenze, Jeni ha così sviluppato il disturbo dissociativo di identità come strategia di sopravvivenza.
Conosciuto come Disturbo di Personalità Multipla, il disturbo dissociativo dell’identità viene descritto dal DSM-5 come una disgregazione dell’identità che porta a sviluppare due o più personalità e che sfocia anche nell’incapacità di ricordare eventi quotidiani, informazioni personali o situazioni particolarmente dolorose che nascono proprio a seguito di grandi e gravi traumi infantili.
A Jeni è stato diagnosticato il DDI. La donna ha dichiarato che la presenza di quelle altre identità le ha salvato la vita.
Il processo, le testimonianza delle personalità di Jeni e la condanna
La prima personalità che accompagnò Jeni in questa strategia di sopravvivenza fu Symphony, una bambina di soli 4 anni, poi ascoltata durante il processo contro il padre insieme ad altre sei identità.
Nel 1984, quando Jeni aveva 11 anni, i suoi genitori divorziarono e lei potè finalmente allontanarsi dal suo carnefice andando a vivere con sua madre che, fino a quel momento, era stata ignara di tutto. Fu solo tanti anni dopo, però, che Jeni Haynes trovò il coraggio di denunciare e di raccontare per la prima volta degli abusi e delle violenze subite da bambina. Non fu facile però, nonostante fosse seguita da diversi psicologi e terapisti, sembrava difficile per tutti riuscire a ricostruire nel dettaglio tutti i fatti.
Alla fine, però, giustizia è stata fatta. Nel 2017, infatti, Richard Haynes, che viveva nel Regno Unito, è stato estradato in Australia per rispondere ai capi d’accusa di pedofilia, violenza e stupro. Durante il processo Jeni Haynes è stata chiamata a testimoniare insieme alle altre sue sei personalità, diventando con tutta probabilità la prima persona affetta di disturbo dell’identità dissociativa a farlo durante un processo.
“È un caso storico perché, per quanto ne sappiamo, è la prima volta in cui la testimonianza di diverse parti di una persona con DID è stata presa per valore nominale nel sistema giudiziario e ha portato a una condanna”, ha affermato il dottor Cathy Kezelman, presidente della Blue Knot Foundation, in una dichiarazione alla BBC.
Nell’aula del tribunale c’era Symphony, la prima identità che ha sviluppato, e che ha raccontato i dettagli terrificanti degli abusi. È stato poi il turno di Muscles, un ragazzo di 18 anni, alto e muscoloso ma molto calmo e protettivo, che conosceva la storia e le violenze subite. È intervenuta anche Linda, una donna alta ed elegante che ha raccontato come quegli anni infernali abbiano distrutto la vita di Jeni, le sue relazioni e il suo rendimento scolastico. Sono stati ascoltati anche Rick e Volcano, e tutte le personalità hanno contribuito a fare luce sui quei terrificanti sette anni in Australia.
Il 6 settembre del 2019 la condanna è stata emessa. Richard Haynes, all’età di 74 anni, è stato accusato di stupro, abusi e torture ai danni della sua bambina, tra gli anni ’70 e ’80, ottenendo una pena di 45 anni di carcere. Ci sono voluti 10 anni affinché le indagini ponessero fine a quell’inferno, ma alla fine Jeni ce l’ha fatta e ha potuto ricominciare.
Oggi, la donna, vive insieme a sua madre e alle sue personalità. Ha dedicato i suoi anni allo studio, ha seguito un master e ha ottenuto anche un dottorato di ricerca in giurisprudenza, anche se non è facile per lei condurre una vita “normale”, convivere con quel passato ingombrante e con tutte le sue altre personalità. “Avere 2.500 diversi voci, opinioni e atteggiamenti” – ha dichiarato alla BBC – “è estremamente difficile da gestire”.
Ma non ha dimenticato e non lo farà mai: “Voglio con tutto il cuore che la mia storia venga raccontata”, ha affermato alla BBC prima della sentenza – “Voglio che i miei 10 anni di lotta per la giustizia siano stati letteralmente il fuoco che ha liberato il campo, in modo che le persone dietro di me abbiano una strada molto più facile”.