Francesca Favotto ha un sorriso luminoso, degli occhi curiosi e un’eredità pesante sulle spalle, quella di un amore condiviso con un tumore per quattordici lunghi anni. Era difficile, quasi impossibile, immaginare Francesca senza il suo Teo (Matteo Losa, qui ne abbiamo raccontato la storia) e il contrario, ogni progetto dell’uno diventava immediatamente quello dell’altro, simbiotici, pazzamente innamorati, ma anche disperatamente consapevoli di quel mostro che continuava a crescere e che si stava mangiando pezzo dopo pezzo quel meraviglioso ragazzo.
Eppure ci hanno creduto, ci hanno sperato in un miracolo, centimetro dopo centimetro, mese dopo mese, ogni giorno in più lo hanno vissuto come un dono, lo stesso lockdown è stato forse l’ultimo “regalo”, se così possiamo chiamarlo, che il mondo ha voluto fare a questo grande guerriero, due mesi e mezzo di coccole, di menù studiati solo per loro due, settimane di preparazione al grande addio, che è arrivato il 6 agosto 2020. Ma la verità è che non si è mai preparati alla scomparsa di chi si è amato così tanto, la verità è che quando la tua vita è scandita da analisi, pet, risonanze, cicli di chemio, l’ospedale diventa la tua normalità, la malattia una compagna di viaggio.
Perché ci si abitua a tutto pur di rimanere accanto a chi si ama, pur di far rimanere su questa terra chi amiamo così tanto, si mette in standby la propria esistenza concentrandosi su quella dell’altro, diventando luce ed energia per chi piano piano perde tutto, la voce, la mobilità delle mani, e tu mangi per due, mentre l’altro viene mangiato dalla sua malattia bastarda, e quando lui scompare, ti sembra di non avere più nulla, ti sembra di aver dato tutto, un pezzo di te muore con lui. Francesca è una dei milioni caregiver presenti in Italia, un esercito silenzioso che si prende cura di un familiare malato, con la differenza che questa ragazza, che nel frattempo è riuscita a laurearsi e a diventare una giornalista. Lo ha fatto da quando aveva diciotto anni, e adesso che ne ha 35 e Teo è scomparso da quattro mesi, sta cercando di rinascere, con fatica, ma anche con determinazione, dalle sue stesse ceneri. Ed è per questo che ho deciso di raccontarvela, perché chi semina così tanto amore è una persona speciale, e merita di essere ascoltata.
Quando avviene il primo incontro con Matteo?
Il primo incontro con Matteo risale al settembre 2001, lo vedo alla riunione della mia squadra di pallavolo: giocavo in una Mista. Avevo 16 anni, ero al bar dell’oratorio con mia mamma. Entrò dalla porta, si illuminò il locale. Era bello come il sole, come un Dio. Lo vidi e rimasi folgorata. Stavo già insieme a un altro ragazzo, ma dissi a mia madre esattamente queste parole: «Lo vedi? Ecco, lui sarà mio». Lui cominciò a giocare da noi, ci vedevamo spesso, ma a me sembrava di essere invisibile ai suoi occhi. Io invece non facevo che pensare a lui. A breve lasciai il mio ragazzo, perché che senso aveva stare insieme se io pensavo a un altro? Verso primavera del 2002 cominciarono i primi approcci, scambio di cellulare, primi messaggi. Poi l’estate, in cui lui prende le distanze. Io parto prima per la Grecia, poi per l’Irlanda; lui per il mare. Ci rivediamo finite le vacanze. Usciamo una prima volta insieme, in cui un messaggio ricevuto da un altro ragazzo letto ad alta voce dalla sottoscritta lo fa vacillare. Così mi invita a uscire la seconda volta. Lui tituba, io lo attiro a me e lo bacio. Era il 23 agosto 2002, ore 23.40.
Quattro anni di amore sereno e spensierato, poi arriva lui, il cancro.
Era il 23 giugno 2006, l’estate dei Mondiali in cui vinse l’Italia. Era un pomeriggio afoso, la mattina di quel giorno avevo dato l’esame di tedesco, 30 e lode. Non vedevo l’ora di vederlo per dirglielo e guardare l’Italia insieme. Appena arrivai a casa sua, uscì dal cancelletto e mi bloccò davanti alla macchina. «Ti devo dire una cosa». «Dimmi». «Ho un tumore, devo essere operato d’urgenza. Sabato sarò sotto ai ferri». Io gelata. «Mi stai prendendo in giro». Lui serissimo. Mi si congela il cuore. Non piango, non rido. Non faccio nulla. Mi chiama Alice, la mia compagna d’università. Vuole sapere di tedesco. «Aly, Teo ha il cancro». Lei non sa cosa dirmi. Io pietrificata, che cazzo significa cancro? «E ora?», gli chiedo. «E ora sabato mi operano e poi dovrò fare la chemio. Andrà tutto bene». Lì è iniziato il nostro calvario lungo 14 anni.
Per 14 lunghi anni hai amato un uomo che sapevi che prima o poi ti avrebbe lasciata, cosa ti ha spinto ad andare avanti? Hai mai creduto nel miracolo?
Siamo stati insieme 18 anni, di cui 14 con il terzo incomodo. Sai, tutti stiamo insieme a qualcuno che sappiamo che prima o poi ci lascerà, solo che per noi il destino era più impresso a chiare lettere nel fuoco. A tratti ho creduto nel miracolo, perché lui era talmente determinato e volitivo di farcela che te lo faceva credere. Cosa mi ha spinto a restare? L’amore. Non è retorica, per me non esisteva altra opzione se non quella di vivere con lui la nostra felicità. Certo, spesso ho avuto pensieri brutti. Per esempio, c’è stata più di una volta in cui ho chiesto a Dio di far morire prima me, perché non sapevo se avrei retto la sua partenza. Nell’ultimo periodo mi trovavo a immaginare come sarebbe stato il dopo di lui, sentendomi terribilmente in colpa. Ma sentivo che di lì a poco avrei dovuto imparare a cavarmela da sola. Sapevo di essere uno shinkansen (un treno ad alta velocità, ndr.) a 300 all’ora diretto in una galleria franata. Più volte durante la nostra storia, mi son chiesta: «Ma chi cazzo te lo sta facendo fare? Ma che cazzo stai facendo?», eppure poi lui mi sorrideva, a me si apriva il cuore, entrava la luce e i pensieri brutti si volatilizzavano. Siamo stati felici insieme, ma di un felice che non si può spiegare. Sai quella gioia che sa di pienezza, di leggerezza, di sogni? Ecco, quella. Ho avuto più di quanto una persona possa mai sperare in una vita intera. Ora però sto cercando di fare in modo che questa eredità non mi schiacci.
In questo casi si parla spesso di fede che riesce a darti la forza di andare avanti, anche per voi è stato così?
Sì. Lui aveva un rapporto più discontinuo con Dio, ma intensamente profondo. Diceva sempre che non si è mai sentito abbandonato, amava molto la figura di Gesù: schietto, diretto, onesto, coraggioso, di rottura. Andava in chiesa, ma quando lo sentiva. Io più pedissequa, retaggio forse dell’educazione cattolica ricevuta. Ma mai costretta. Amo andare in chiesa, perché lì mi sento accolta. Sento un’energia incredibile che mi pervade, un senso di pace. E poi credo nell’Amore. Per me Dio infatti è amore. Dobbiamo svincolarci dalla religione. Chiamatelo come volete: Dio, Jahvè, Visnù, Buddha, Allah… Sempre di Amore si tratta. Ho conosciuto e sperimentato tanto di quell’Amore che ne sono pervasa. Ma non solo da Teo, da tante persone, con tanti gesti. Io amo l’Amore e cerco di farne la mia religione. Se uno pratica l’Amore, mette in pratica Dio. Il mio comandamento è: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. E così cerco di vivere. Questo mi insegna anche ad amare me stessa ogni singolo giorno: se uno ama se stesso e si rispetta, ama meglio anche gli altri. Non può nuocere loro.
Perché spesso ci si dimentica dei caregiver? Quanto sarebbe importante che questa figura venisse riconosciuta?
Perché inevitabilmente è il malato a fare notizia, lo sappiamo. Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Eppure per un malato ci sono almeno due caregiver in media. Siamo un esercito di persone “malate”, che non fanno rumore. Malate perché quando si ammala una persona che ami, si ammala anche una famiglia intera. Il cancro ti cambia lo sguardo, il cuore, la percezione di te stessa, della vita, la prospettiva. Aumenta la paura, ma non puoi manifestarla perché il malato ha più paura di te e conta su di te per andare avanti. Non puoi dire la verità quando ce l’hai in punta di cuore, per preservare la sua speranza. Sorridi per due, mangi per due. Io ero arrivata a pesare quasi 90 kg: mi rifugiavo nel cibo perché vedevo Teo deperire, così io inconsciamente pensavo di nutrire anche lui. Vivi per due. Non andavo dalla psicologa perché inconsciamente mi sembrava di ammettere le mie fragilità, quando invece per Teo ero la sua forza. È un gioco di equilibri fragilissimi, di cose non dette, di pensieri malcelati, di pianti sotto la doccia perché lì non può sentirti né vedere le tue lacrime. È fondamentale che il caregiver riceva finalmente l’attenzione che merita: ci sono già molte associazioni che si occupano di quest’esercito silenzioso, li aiutano con la burocrazia, ma anche psicologicamente. Ma se ne parla ancora troppo poco. Come giornalista, nel mio piccolo, sto cercando di portare alla luce questa figura con i miei articoli. E ora, come testimonial Airc “sana”, sto cercando di porre sotto i riflettori la mia storia di caregiver, che è la storia di tante persone, che silenziosamente sacrificano la loro vita, in nome dell’amore più grande che c’è: quello per qualcuno che non siamo noi.
Il 6 dicembre sono quattro mesi c’è Matteo non c’è più. Come si va avanti?
Sono fiera di me. Perché come dici tu, sono andata avanti. Sto cercando di andare avanti. Che non significa dimenticare, anche se a volte sembra che la mia mente per proteggermi, si rifiuti di andare a pescare in certi cassetti. Ma significa celebrare con la mia vita, la vita che abbiamo avuto insieme. Sono una che non ha mai amato vivere nel passato: dal passato imparo, ma non sono nostalgica. Ho avuto un passato glorioso, bellissimo, da film. Un amore così è una benedizione gigantesca, ma può essere anche una maledizione. Sto cercando di non farmi imprigionare: dalla sua figura, dal suo amore. Lui è scolpito nel mio cuore, sarà sempre con me, ma ora sono rimasta solo io, che sono tutto ciò che ho. Sento la sua mano benevolente su di me, sento la sua guida nei miei pensieri, mi sento forte e sicura, mai sentita così. Ma ho davvero sete di vedere cosa succederà, sono curiosa di conoscere la mia nuova vita. Non ho fame di futuro, ma ho propria voglia di godermi ogni singolo momento. Mi alzo la mattina, ringraziando per tutto l’Amore che avrò e mi addormento ringraziando per tutto l’amore che ho ricevuto. Poi nutro tanto la mia mente e la mia anima di bellezza: leggo tanto, medito, faccio yoga, ballo e canto come una disperata, fotografo, passeggio nella natura. E scrivo, scrivo, scrivo: la scrittura mi sutura l’anima e il cuore. Sono fortunata, mi sento bene nella mia pelle. Mi manca tanto, ecco, il contatto con le altre persone: ho voglia di abbracciare, baciare, annusare, sentire le vibrazioni pelle a pelle, cuore a cuore. Sono molto animalesca in questo. Ma sto trovando il mio equilibrio. Oggi mi amo, finalmente.
Che eredità ti ha lasciato Matteo?
Matteo mi ha lasciato i suoi progetti, che ora cercherò – vita, Covid, casini permettendo – di portare avanti, a partire dalla promozione del suo ultimo libro Un altro giorno insieme. Sto cercando di mettere ordine nella mia vita, ma è complicato seguire anche le sue cose. Ora che il Covid ci ha messo in fuorigioco, ho scelto di concentrarmi momentaneamente su di me. Quando sarò pronta, entrerò nel suo studio e metterò mano alle sue carte. C’è così tanto che mi ha lasciato, che a volte non so da dove partire. Poi mi dico: una cosa alla volta, Francina. Poi, mi ha lasciato la sua testimonianza per Airc, un ruolo che ho raccolto con molto onore e fierezza. Sono la prima sana, a rappresentare non solo la storia di Teo, ma anche i caregiver. Lo faccio con molto cuore, perché credo tanto nella ricerca: senza la ricerca Teo non avrebbe mai vissuto 14 anni alla grandissima. Agli amici di Airc devo tanto: hanno salvato anche la mia, di vita. E poi, mi ha lasciato il suo amore, che ha nutrito tanti cuori e tante anime, oggi fameliche di lui. Sto cercando di provare a raccontarlo ancora, di portare la sua luce in giro, ma in questo periodo faccio più fatica proprio perché sto cercando di raccontare me. Non sono una donna che ama vivere nell’ombra, ma per tanti anni per amore un po’ in disparte mi sono messa, pur avendo fatto la mia vita, una vita bellissima. Oggi sono io, come cantava Britti vent’anni fa. E lo voglio gridare a gran voce: ho delle grandi cicatrici sul cuore e in faccia, le lacrime a furia di scendere han scavato il solco. Ma sono io, una Franci diversa, eppure mai così me stessa come oggi. Ancora un po’ cerco la sua approvazione, guardo il cielo e penso se sarebbe fiero di me. Poi abbasso lo sguardo e mi dico che l’unica che deve approvare ciò che faccio sono io e nessun altro.
Francesca è in rinascita, cosa sogna, cosa vuole, come vive, cosa spera
Tra poco compirò tre mesi: il 28 settembre di quest’anno sono rinata a vita nuova. Mi sento davvero una donna nuova, ho cambiato tanto di me stessa in questi 18 anni, ma soprattutto nell’ultimo anno. Un anno fa ho cominciato a farmi seguire da un dietista per dimagrire e provare a prendermi cura di me stessa; poi ho ripreso a fare yoga, ho tagliato i capelli e ho cambiato la montatura agli occhiali dopo vent’anni che avevo la stessa. Ho smesso di vergognarmi di essere come sono: un mix esplosivo di femminino e mascolino. Amo come un uomo, ragiono come una donna. Amo mostrarmi: dopo una vita passata a sentirmi meno di tutte (sono sempre stata la secchiona tra le amiche, un po’ topo di biblioteca), oggi ho capito che non c’è niente di più sexy dell’intelligenza. Sogno, tanto, in grande, a occhi chiusi e a occhi aperti. Durante il primo lockdown ho cominciato a scrivere su un’agenda la mia to do wishlist. Alcuni li ho già depennati, altri li depennerò. Alcuni sono desideri piccini, come l’imparare a suonare il basso, studiare il portoghese, andare a quanti più concerti possibile, finita la pandemia. Poi ci sono le mie follie: voglio sentirmi libera come un uccello, come cantavano i Lynyrd Skynyrd. I miei amici mi hanno già regalato l’Aerogravity, ma poi andrò anche a provare la zipline sul Lago Maggiore, a fare parapendio, a fare paracadutismo. So perfettamente cosa significa sentirsi a terra, ora voglio capire cosa significa essere al settimo cielo. E poi voglio amare: sento che ho tantissimo amore da dare. E mi piace di me il fatto che seppure abbia perso così tanto, non abbia paura di rimettermi in gioco. Sono affamata di felicità, voglio essere così fottutamente felice perché penso di meritarmelo tanto. E se uno già realizza di meritarsi qualcosa, è già a buon punto per esserlo.
Se tu potessi tornassi indietro rifaresti tutto, o cambieresti qualcosa, anche solo un piccolo particolare?
Sì, rifarei tutto daccapo. Tutto quanto. Lo amerei ancora con tutta me stessa, non mi risparmierei, perché questo amore mi ha insegnato che si può essere felici, uscendo dai percorsi prestabiliti. Ecco forse lo obbligherei a sposarmi. Sì, obbligherei perché in questa vita abbiamo aspettato che lui fosse pronto e il momento l’abbiamo perduto. Volevo sposarmi per amore, per consacrare la cosa più sacra che avevamo. Avevo già scelto l’abito, come fare la festa, avevo sognato ogni istante. Ma non è successo: lui voleva guarire per giurarmi un amore eterno senza il fardello della malattia. Ha realizzato troppo tardi che non sarebbe mai guarito, così non è mai diventato mio marito, anche se eravamo più sposati noi di tantissime coppie sposate per davvero. Ci siamo scelti ogni giorno della nostra vita, l’ho scelto fino alla fine. L’ho scelto oltre la morte. E poi avrei affrontato con lui il tema del dopo: per pudore o per paura di ferirlo non abbiamo quasi mai parlato di come avrei dovuto vivere senza di lui. Che poi non me lo doveva certo dire lui, ma mi sono trovata qui sola a non sapere come gestire tantissime cose. Mi sono dovuta reinventare, ora mi sento una neonata di 70 anni, una sorta di Benjamin Button: voglio vivere a ritroso per recuperare tutto ciò che non ho ancora vissuto. Ma con la protezione di un amore che mi ha resa libera, davvero.