Giustizia e verità per Marco Vannini

Una madre come fa? Come fa ad ascoltare in diretta suo figlio che muore, mentre i presenti fanno tutto tranne che provare a salvarlo?

Pubblicato: 8 Luglio 2020 17:30

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Oggi è iniziato il processo d’appello bis per l’omicidio Vannini, dopo l’annullamento della sentenza che liquidava tutto come un banale incidente oggi la Corte d’Assise d’Appello, a Roma, riapre il caso.    Marco Vannini aveva vent’anni quando è morto. Non è morto per scelta. Non è morto per caso.
È morto perché una famiglia intera, un’intera famiglia, ha deciso di far finta che non fosse accaduto nulla.

Un padre, una madre, i loro due figli, Federico e Martina, hanno deliberatamente, scientemente deciso, di comune accordo di raccontare una versione dei fatti di quella sera che nessuno ha mai potuto smentire, perché l’unico che avrebbe potuto farlo è morto. E invece questo ragazzo biondo con le fossette che ridono e che abbiamo imparato a conoscere e ad amare attraverso le parole della madre Marina, sembra voler urlare la sua verità, anche se lui la voce non ce l’ha più.

Oggi grazie ad un gruppo di esperti italiani e statunitensi siamo riusciti a ricostruire le ultime parole di Marco, la sua agonia drammatica in diretta con il 118: “Dov’è il telefono, portamelo, portami il telefono, mi fa male, mi fa male il braccio”. Ancora: “Ti prego basta, mi fa male, portami il telefono” di sottofondo la voce di Martina Ciontoli, che invece di essere disperata per le condizioni del suo ragazzo pensa di calmarlo dicendogli basta, basta. La realtà è che le urla di Marco disturbano, la disturbano, perché sono reali, la stanno mettendo di fronte all’accaduto: suo padre ha sparato un colpo che lo sta uccidendo. Non c’è pietas nella sua voce, non c’è terrore, c’è solo una sorta di fastidio per il dolore che diventa reale, come quando i bambini urlano e tu vuoi farli smettere perché la loro voce disturba. La sofferenza disturba.

Eppure la Corte nella giornata odierna non ha ammesso la consulenza della Emme Team che è la società che ha ripulito l’audio, e così ancora una volta le urla di questo ragazzo che muore sembrano cadere nel vuoto. Avete mai ascoltato le telefonate originali fatte al 118 quella maledetta tragica sera? Se volete capire il dramma di questo omicidio e della disperazione della madre fatelo.

Due sono le telefonate effettuate al 118 dove si minimizza l’accaduto, si parla di panico, si parla di caduta, si parla di spavento, si parla di una ferita piccola, di un buchino fatto con la punta di un pettine.
E se in un primo momento a colpirmi è stato il tono relativamente freddo e contenuto dei familiari, immediatamente dopo è stata la voce di Marco a mandare in frantumi il mio ascolto.

Antonio Ciontoli, il padre, parla con l’operatore e dice (testuali parole): ” Il ragazzo stava in vasca ed è caduto…e si è bucato un pochino con un..come si chiama..un pettine a punta…eh niente si è bucato sul braccio..si è messo paura..un panico..”

A quel punto come una coltellata arriva la voce di Marco, che chiede pietà, chiede aiuto, urla basta, e la voce è talmente distorta dal dolore che fa domandare all’operatore del 118 se la vittima dell’incidente sia diversamente abile. Non una parola sulla pistola. Non una parola sulla realtà dei fatti. Che sono chiari.
E ricostruiti anche attraverso le intercettazioni ambientali avvenute in caserma a poche ore dalla morte di Marco. La sua fidanzata non ha parole di disperazione per l’accaduto. Non si preoccupa minimamente del fatto che il suo ragazzo è morto per mano del padre. Per un gioco. No. Lei si preoccupa degli esami da sostenere, del fatto che chissà il padre come sta male.

Viene addirittura detto che Marco doveva morire, è stato il destino. Eh no bella mia.
Il destino è quello che tu sei sul marciapiede e ti cade un vaso da fiori in testa nel momento esatto in cui tu passi. Se tuo padre, che è pure un militare, decide di giocare a fare il pistolero con il tuo fidanzato e gli spara quello si chiama omicidio.

E se, una volta accortosi della cazzata fatta, voi tutti aveste chiamato i soccorsi e detta la verità, Marco si sarebbe potuto salvare. E invece no. Tre ore di agonia. Due litri di sangue perso. Cuore e polmoni colpiti, ma un intervento tempestivo lo avrebbe salvato. E invece no.

Come fa una madre ad accettare tutto questo? Una madre che ha lasciato andare a dormire suo figlio, il suo unico figlio, a casa della fidanzata, perché si fida, perché lo ha sempre fatto, perché immagina che in caso di bisogno i genitori di Martina e Federico tratteranno il suo Marco come fosse un loro figlio. E invece no. Io riesco a vederli mamma Marina e papà Valerio che corrono all’ospedale, che scendono dalla macchina con la speranza ancora a tenerli in vita, quella che passerà tutto, anche quella notte infernale, e torneranno ad essere una famiglia, loro tre, anche insieme ai Ciontoli. Perché quello sarebbe successo, se solo nel momento dello sparo i Ciontoli avessero chiamato le cose con il loro nome, se solo una volta chiamato il 118 avessero denunciato l’accaduto per quello che era, Marco non si era bucato con un pettine, non era stato un colpo d’aria, una caduta, gli avevano sparato. Per sbaglio, per gioco, per errore, per quello che era stato.

Ma una madre come fa? Come fa ad ascoltare suo figlio che muore in diretta, mentre una famiglia intera fa tutto tranne quello che avrebbe dovuto fare, cioè salvarlo? Quante volte Marina avrà ascoltato quelle grida d’aiuto, quante volte nella sua testa avrà pensato di poterlo salvare se solo fosse capitata lì per caso, che magari ogni tanto lo faceva anche di fare le improvvisate ai Ciontoli, con cui erano amici. Quante volte. È un dolore che ti mangia da dentro perché sai che potrai riviverla all’infinito quella notte, ma il risultato sarà sempre lo stesso. Marco morirà. Quella è la fine di quella notte senza fiato e senza stelle e morirà per incuria, morirà per depistaggio, morirà per mancanza di aiuto, quello che invece si sarebbe meritato.

Una mamma come fa a non immaginarsi la pena infinita di quel figlio di vent’anni che urla di dolore fino quasi a non avere voce, fino a quando la voce si trasforma, perché il trauma è talmente forte da cambiarti il tono? Una mamma lo sa, una mamma lo sente che suo figlio sta morendo, e ogni volta vorrebbe urlare aiutatelo vi prego aiutatelo. Ogni volta da cinque anni ad oggi.  Quanto vale la vita di un ragazzo di vent’anni?

Marco da cinque anni abita in un cimitero. Da morto. Marco non avrà attenuanti. Non avrà modalità alternative di vita. Il mio pensiero va a Marina e a Valerio condannati a vivere pur essendo morti con il figlio. Se io ti sparo per caso, ma non ti soccorro per scelta, ti uccido consapevolmente. Tre ore di agonia. Due litri di sangue perso. Cuore e polmoni collassati. Che almeno la giustizia faccia il suo corso.

La sentenza è prevista a settembre 2020. Non potranno ridare la vita a Marco, ma confidiamo nel processo perché a questo ragazzo venga riconosciuto quello che gli sarebbe spettato dal 15 maggio 2015: giustizia. E verità.

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