La pratica del rooming-in è una proposta assistenziale che incoraggia le madri a tenere i neonati accanto a sé il più possibile nell’arco delle 24 ore, in modo da avviare al meglio l’allattamento al seno. Fa parte di una serie di raccomandazioni che incentivano l’abbandono della prassi ospedaliera che prevedeva la permanenza di madre e neonato in stanze separate e limitava il contatto a visite programmate, sia in vista dei benefici immediati che di quelli futuri.
Tuttavia, è una pratica che gli stessi esperti raccomandano di implementare in maniera empatica e appropriata, tenendo conto non solo dei vantaggi ma anche delle difficoltà e delle possibili limitazioni.
La possibilità di usufruire del Nido (nursery), dell’assistenza di un familiare o di altri servizi complementari rimane fondamentale per garantire alle madri la possibilità di riposare, nel rispetto dei loro desideri e necessità. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Manuela Fiori, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck di Roma.
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Rooming-in: cos’è e come nasce
Per rooming-in si intende la permanenza di madre e bambino nella stessa stanza, eccetto per il tempo necessario alle procedure assistenziali, a partire dal momento in cui la madre risulti in grado di rispondere dopo il parto alle richieste del bambino. Fa parte dei 10 passi per il successo dell’allattamento al seno promossi da OMS e UNICEF nel 1989, insieme al contatto precoce pelle-a-pelle tra madre e neonato, sempre che le condizioni di salute di entrambi lo permettano.
Partendo dal presupposto che il latte materno costituisca nei primi sei mesi di vita il migliore alimento per garantire una sana crescita e un sano sviluppo, come si legge nella dichiarazione originale di OMS e UNICEF, l’adozione delle pratiche di rooming-in è stata attivamente incoraggiata anche in Italia.
In una nota congiunta, la Società Italiana di Neonatologia (SIN), la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) e l’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI) sottolineano il valore del rooming-in e in generale di un’assistenza che sappia mettere al centro i bisogni di salute della diade madre-neonato, facendo in modo che le famiglie siano adeguatamente informate, coinvolte e supportate.
Pro e contro di questa possibilità
La possibilità di allattare a vera domanda e non a orari prestabiliti è il primo vantaggio offerto dal rooming-in, favorendo la montata lattea e facilitando la risoluzione di eventuali difficoltà. Inoltre, la gestione in relativa autonomia del bambino con il supporto del personale competente può rivelarsi un valido aiuto per acquisire sicurezza e fiducia nella cura del neonato, in particolare per chi è al primo figlio e a prescindere dall’età.
Ma prendersi cura di un neonato giorno e notte, fin dalle prime ore successive al parto, può essere sfiancante, soprattutto se il bambino ha ritmi di poppata molto frequenti, se si è sole o se non si è nelle condizioni fisiche o emotive adeguate per rispondere alle sue richieste con serenità.
«Non bisogna dimenticare che quando nasce un bambino nasce (o rinasce) anche una mamma. Per questo è importante affrontare il tema anche nei corsi preparto, in tutti i suoi pro e contro, senza enfatizzare i soli aspetti positivi ma facendo in modo che sia una scelta davvero consapevole» spiega la dottoressa Fiori. «Pressioni dirette o indirette sul rooming-in 24 ore su 24 potrebbero diventare controproducenti, favorendo sentimenti di inadeguatezza e senso di colpa. Nella fase delicata successiva al parto non è facile essere del tutto autonome: si è vulnerabili sia fisicamente che emotivamente. E non tutte sanno che è possibile chiedere aiuto o fare scelte diverse dalla compresenza continua».
Prima persone, poi mamme
«La fatica, il dolore e le difficoltà motorie delle neomamme non andrebbero sottovalutate, ricordando che si è prima di tutto persone e poi mamme. Sulla carta il rooming-in può sembrare la scelta migliore, ma non è detto che sia così per tutte. A maggior ragione se la presenza dell’altro genitore, di un familiare o di una persona di fiducia non può essere garantita, è importante che la mamma non si senta abbandonata a sé stessa» prosegue l’esperta. «Per questo è auspicabile che l’attenzione non si sposti esclusivamente sul neonato, accogliendo le richieste di aiuto con atteggiamento validante e non squalificante. Chi è in attesa o ha appena partorito dovrebbe poi essere rassicurata sul fatto che è normale provare anche emozioni negative o ambivalenti, senza sentirsi in dovere di aderire a uno stereotipo di maternità iper-competente e iper-amorevole. Riconoscere e accettare le proprie emozioni senza giudizi, interni o esterni, è sano e non significa non amare il proprio bambino».
Cosa ne pensano le pazienti
Come tutte le pratiche assistenziali anche il rooming-in va valutato tenendo conto dell’esperienza concreta di chi ne usufruisce. In uno studio pubblicato su Frontiers in Pediatrics è stata valutata l’esperienza di rooming-in di 328 madri e 333 neonati in un centro di riferimento terziario per l’assistenza neonatale a Milano, evidenziando lati positivi e ostacoli dal punto di vista delle mamme.
«Si tratta di uno studio importante, perché permette di valutare sia la conoscenza dei genitori rispetto a questa opportunità sia gli ostacoli riscontrati nella sua applicazione pratica» commenta la psicologa. «Il rooming-in si è rivelato utile per imparare a riconoscere i segnali di “fame” e nella promozione del legame madre-bambino, ma le donne hanno evidenziato anche alcuni ostacoli: il primo è l’affaticamento (40%), poi le difficoltà legate al cesareo (15.5%). La notte è comprensibilmente il momento più critico e tutte le mamme hanno sottolineato la necessità di maggior supporto e assistenza, non solo per il bimbo ma anche per se stesse. Da psicologa, trovo che sia importante non ragionare per assoluti ma tenere sempre presente che ogni donna è portatrice di un proprio vissuto, delle proprie aspettative e delle proprie esigenze».